Un gioiello rinascimentale: la Stanza della Segnatura di Raffaello
Come avrebbe potuto un giovane artista venticinquenne creare un’opera tanto monumentale da poter sostituire il lavoro all’interno delle Stanze Vaticane, precedentemente realizzato dai grandi nomi del panorama artistico quattrocentesco, tra cui lo stesso Piero della Francesca? Possiamo immaginare come lo stesso committente, Giulio II, si pose la medesima domanda quando Bramante gli propose come valida alternativa ai precedenti affreschi, l’operato del giovane artista di Urbino Raffaello Sanzio. Dagli studi di Shearman, si è potuto constatare come l’attuale Stanza della Segnatura, luogo in cui avrebbero presso vita le opere rinascimentali del Sanzio, venne in precedenza usata come biblioteca privata del papa, constatazione riscontrabile dalla modalità in cui gli affreschi risultano distribuiti sulla massa muraria, tipologia che ripercorre gli stilemi medievali fino alla stessa conformazione dello studiolo di Urbino. Rispettando le direttive impartite dal pontefice, Raffaello creò un movimento discendente nella visione degli affreschi. Alzando lo sguardo verso la volta, possiamo ammirare dei tondi in finto marmo, all’interno dei quali campeggiano le quattro arti liberali, motivo che sarà ricalcato all’interno delle lunette. Restando nella zona della volta, rintracciamo quattro pennacchi rettangolari rappresentanti episodi appartenenti all’antico testamento e alla tradizione pagana. Ricalcando la filosofia neoplatonica-ficiniana e francescana intrapresa da Giulio II, e creando un accordo tra vero naturale, riflesso dell’antico, e vero rivelato, appartenente alla visione cristiana, Raffaello realizza l’affresco della Disputa del Sacramento. La ricerca spasmodica della verità all’interno del Libro da parte delle figure a sinistra, viene colmata da un biondo angelo che, indicando l’ostia sacramentale, sede di sapienza ultrarazionale, rivela la sede della Verità universale. L’affresco raffaellesco venne influenzato dalla “Adorazione dei magi” di Leonardo, riprendendone le espressioni tese e concatenate, così come dal “Giudizio finale” di Frà Bartolomeo. Sono presenti personaggi riconoscibili del tempo, come Beato Angelico, Bramante, papa Giulio II, Savonarola e Dante. Altro elemento cardine dell’opera vaticana è la ripresa del plasticismo michelangiolesco, ravvisabile nell’uomo proiettato in avanti e nell’uomo di spalle. Spostandoci verso la Scuola di Atene troviamo l’impegno dell’uomo, appartenente a qualsiasi periodo storico, di cercare attraverso la filosofia, la verità razionale. Il tempio imprecisato ed etereo all’interno dell’affresco della Disputa, viene qui sostituito da un tempio monumentale richiamante le antiche strutture architettoniche romane. La disposizione a semicerchio dei personaggi viene interrotta dall’inserimento successivo di Eraclito- Michelangelo, posto raggomitolato su se stesso. Punto cardine dell’intera composizione sono i due massimi esponenti della filosofia antica quali, Platone recante il Timeo, e Aristotele che raffigurato con l’Etica. Nella lunetta posta su di un impotente finestra, Raffaello raffigura la sede delle muse: il Parnaso. Qui fanno capolino i grandi nomi della poesia antica come Ovidio, Orazio e Properzio posti in parallelo con nomi quali Dante, Boccaccio e Petrarca. In quest’ambiente bucolico troviamo le nove muse incantate dai suoni melodiosi prodotti dall’Apollo laureato. Aprendosi al di sopra di una finestra asimmetrica, la lunetta de Le Virtù ci appare divisa in più momenti rappresentativi. Se nella parte superiore abbiamo le virtù, in quella inferiore troviamo l’applicazione della legge civile, “Triboniano rimette le manette”, e canonica, “Gregorio IX riceve le decretali”. Ciò che emerge è la netta divisione tra la Scuola di Atene, chiusa all’interno di un’architettura perfetta, eccetto per l’apertura centrale, in quanto riferimento alla conoscenza irrazionale, e gli spazi reali che contraddistinguono gli atti di giustizia. Ciò che stupisce lo spettatore è la capacità con cui Raffaello, a distanza di cinquecento anni, riesca a stupire con la stessa intensità con la quale Giulio II accolse l’opera terminata.
Articolo a cura di Chiara Tondolo