Sofocle e l’eroe consapevole: ora capisco
L’alone di mistero che avvolge la figura del drammaturgo è causa di molte incertezze circa la sua biografia ma non si può dire lo stesso per il metodo e lo stile. La critica è sostanzialmente concorde nell’affermare che l’eroe di Sofocle è il primo personaggio moderno nella storia del teatro. Una prima, importantissima, caratteristica è l’isolamento: l’eroe sofocleo è isolato dalla collettività in virtù di una forza esterna che lo scaraventa al cospetto di un dolore tanto inesorabile da rimanere incomprensibile al resto del mondo. Tuttavia la statura eroica del protagonista è coadiuvata dall’azione dell’autore che lo circonda di interlocutori tali da concentrare su di lui il focus dell’azione. Dunque, rispetto alla tragedia eschilea non solo egli grandeggia sulla scena ma acquisisce anche uno spessore psicologico ed è capace di evolversi, maturare e riflettere su se stesso, in altre parole, di introspezione. L’arte del tragediografo risiede, infatti, maggiormente nella capacità di tessere questa fitta rete di legami fra carattere e motivazioni psicologiche, al punto che l’anonimo autore di Vita di Sofocle lo giudica in questo modo: egli è maestro nel cogliere l’esatto ritmo dell’azione, persino da un mezzo verso o da una parola soltanto sa creare un carattere. E la creazione di un carattere non è, per Sofocle, unicamente la descrizione della sofferenza ma, anzi, mettere in luce la presa di coscienza del protagonista, che acquista una consapevolezza più profonda della propria natura. Guidorizzi nel proprio manuale di letteratura greca sostiene che se per Eschilo la frase che potrebbe riassumere il senso di un personaggio è che devo fare? Per Sofocle potremmo dire che essa sia ora capisco: una frase che denota la dolorosa consapevolezza di una realtà stretta attorno all’eroe come un laccio.
Si faccia riferimento all’Aiace, tragedia di datazione incerta, forse 450 a.C, considerata l’opera sofoclea più antica. L’eroe protagonista è presentato all’inizio del dramma come in preda ad un furor cieco e terribile, desideroso di vendicarsi per non aver ricevuto le armi di Achille (che invece sono state consegnate ad Odisseo). La pazzia lo induce a commettere una strage di armenti che, nella follia, gli paiono avversari e, in un secondo momento, compare al cospetto di Odisseo, soggiogato dalla dea Atena. La scena desta nell’eroe omerico orrore ma soprattutto pietà: egli, infatti, si riconosce compagno dell’avversario poiché nella sorte di lui vedo anche la mia, verso 124. Ebbene, ad un tratto Aiace rinsavisce e, per essersi reso ridicolo, medita il suicidio, atto volto a salvaguardare l’onore. Invano tentano di dissuaderlo Tecmessa e i marinai di Salamina (il coro) ed infatti l’ultima scena della prima metà del dramma si conclude con l’immagine dell’eroe che si getta sulla propria spada e spira in riva al mare. Ho utilizzato l’espressione prima metà perché la tragedia ha una struttura particolare (propria anche di Trachinie e Antigone) che è quella cosiddetta a dittico e, quindi, è suddivisa in due metà. Nella prima l’eroe va gradualmente incontro all’adempimento del proprio destino (di morte), mentre nell’ultima assume molta importanza la descrizione degli effetti che la sua dipartita ha avuto sulla comunità. Ma ciò che rende veramente particolare questo dramma sofocleo è il fatto che l’azione prenda il via nel momento in cui gli eventi che danno luogo al dramma stesso sono già avvenuti e perciò non possono più essere modificati. Il destino immutabile ha già segnato la via e l’autore può concentrarsi su un percorso molto diverso: quello interiore dell’eroe che fronteggia l’inesorabilità degli eventi. Il fulcro della vicenda è, quindi, proprio il momento in cui Aiace medita sul valore della propria esistenza, appena prima di togliersi la vita.
È turpe cosa
che l’uom per cui non c’è scampo dai mali
brami vivere a lungo. E qual diletto
gli arreca un giorno che ai suoi giorni aggiungasi,
che da morte allontani? Oh, non darei
sola una ciancia, di colui che l’anima
scalda a vane speranze. Il generoso
vivere deve con onore, o scegliere
morte onorata: altro da dir non ho.
Questo recitano gli ultimi versi dell’estremo monologo dell’eroe, tanto intenso da suggellarne la modernità, in cui il protagonista si erge quale primus tra gli altri: lui, e soltanto lui, è rimasto fedele ai principi della cultura aristocratica, alla morale della società e quindi al senso dell’onore, persino la tensione emotiva è contenuta e in realtà non c’è un vero e proprio cedimento al pathos. Egli muore per la vergogna in cui la follia lo ha gettato ma anche, ed è egualmente importante, per il pensiero di aver disonorato il padre e quindi di essere indegno della sua stessa stirpe. L’unico riscatto possibile è quello in cui riacquisisce la dignità che in una notte la pazzia gli ha sottratto ed è il suicidio, il tributo che sconta per conservare la propria fama nella memoria collettiva. Tale atto non è pertanto un cedimento ma una pubblica riaffermazione di sé, benché ci sia un elemento dissonante in questo senso, ed è il fatto che l’azione si concluda a scena vuota, cosicché la statura del personaggio grandeggia al culmine del proprio isolamento dinnanzi all’arma. Simbolo estremo, io credo, di una mancata riconciliazione con gli avversari, ma, ancor più, dell’ irrimediabile solitudine di un eroe la cui alterità e grandezza sono state superate. Egli è infine un colpevole, la cui colpa scompare via via nel corso dell’opera, ma anche un uomo, magnanimo e sofferente, perseguitato da un destino la cui oscurità è messa ben in evidenza già dal prologo, con le parole di Odisseo:
io vedo che tutti noi viventi non siamo altro che fantasmi […] vaghiamo tutti nel dubbio