Arianna Fontanot
pubblicato 8 anni fa in Altro

Le molte donne di Atene

Le molte donne di Atene

Per quante ora si troveranno in vedovanza, comprenderò tutto in questa breve esortazione. Gran vanto per voi dimostrarvi all’altezza della vostra femminea natura; grande è la reputazione di quella donna di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli uomini

Questo breve estratto, dal discorso di Pericle in memoria dei caduti nel 461 a.C, riferito da Tucidide nelle Storie, è un buon testimone di come la società ateniese percepisse il ruolo femminile in epoca classica. La donna poteva essere moglie, concubina o prostituta, ruolo che si definiva sulla base della durata e della qualità del rapporto che intratteneva con un uomo. Eva Cantarella, in conclusione al suo saggio, “l’ambiguo malanno” sostiene che la condizione femminile fosse insoddisfacente sul piano personale , quasi inesistente sul piano sociale e regolata a livello giuridico da norme che ne sancivano l’inferiorità e la perpetua subordinazione ad un uomo.
Se infatti una donna contraeva matrimonio e sottostava alla poestà del proprio marito, era necessario che sua figlia, allo stesso modo, fosse subordinata a quella del padre. Questa situazione era caratteristica tanto della vita familiare quanto di quella pubblica: da un lato le gynai erano relegate ad una remota parte dell’ oikos (la casa del marito) meglio nota come gineceo, dall’altro non erano nemmeno riconosciute quali cittadine. Infatti, ad Atene, era cittadino chiunque potesse armarsi e difendere la città, ad eccezione di chi avesse commesso gravissimi reati e fosse considerato astos ovvero appartenente alla città, in senso fisico, ma di fatto escluso dalla vita politica e sociale. 1369d486a1ec037ff1de634f24175c04Ebbene, la donna era considerata cittadino allo stesso modo di un astos, dunque un delinquente, e pertanto denominata aste. Soltanto a partire dal 451- 450 a.C lo stato di aste le permetteva di trasmettere la cittadinanza al proprio figlio, in precedenza apannaggio esclusivo del padre.
Dunque “essere all’altezza della femminea natura” richiedeva particolari virtù e non era affatto semplice. Una moglie onesta, ad esempio, non poteva uscire di casa, se non in particolari e rare occasioni, quali feste religiose e riti funebri cui doveva presenziare a capo velato. In secondo luogo, e ciò ben ne esprime la subordinazione di cui sopra, una fanciulla era tenuta a sposare chiunque le fosse imposto dal padre o dal proprio tutore. Il matrimonio era denominato gamos o engye a seconda del momento e costituiva l’unica via con cui due cittadini potessero garantire alla propria famiglia una discendenza legittima. C’era bisogno di un’attestazione che ne sancisse la piena liceità ed era conseguita in due momenti: l’engye era un momento di scambio vero e proprio tra padre e marito e che permetteva il transito al nuovo oikos, avveniva in un luogo pubblico al cospetto di testimoni. Naturalmente alla donna non era concesso di prendervi parte ma il padre aveva l’obbligo di informarla dell’avvenuta promessa contrattuale. Ad ogni modo , come afferma Anna Maria Storoni nel saggio “Padri e figli nella Grecia antica”, la giovane ateniese era del tutto ignara di ciò a cui andava incontro ed era appunto questa ingenuità a renderla particolarmente ambita dal marito che avrebbe potuto plasmarla a proprio piacimento. Essendo un contratto a tutti gli effetti, l’engye possedeva delle clausole, una in particolare pare in linea con quanto appena mostrato riguardo alla coscienza della donna come oggetto di scambio e cioè quella che contemplava la restituzione di un risarcimento al padre in morte del marito o in caso di divorzio.
Il gamos, al contrario, la cerimonia vera e propria, constava di due momenti differenti: durante il primo, a casa del padre, si metteva in scena un rapimento cui seguiva la conduzione della sposa a casa del marito su di un carro, dotato di un lungo corteo, secondo momento. Plutarco ad informa che tale tradizione era diffusa anche a Sparta, in Vita di Licurgo, 110, dice esplicitamente: le sposavano in virtù del rapimento.
Se, comunque la vita di una moglie non era semplice, ben diversa era quella di un’ etèra, ovvero, una cortigiana che veniva percepita in ambito sociale come “altra” rispetto alla donna sposata. Non vi era possibilità di confronto fra i due mondi, i quali correvano del tutto paralleli: la moglie garantiva la discendenza, l’etèra il piacere e il diletto di un uomo. Unica fra le donne a potersi considerare padrona del proprio corpo, l’etèra era spesso una donna colta e intelligente, abile a scegliere come compagno un uomo ricco e facoltoso. A conferma di quanto detto si veda Plutarco che, in “Vita di Pericle”, racconta la nota vicenda di Aspasia di Mileto, figura ambigua e al limite tra una concubina e una cortigiana. In conclusione vi è però un’ulteriore categoria degna di attenzione, a mio avviso, che si pone in contrasto con la raffinatezza delle etère ed è quella delle pornai, le prostitute di basso lignaggio. Il loro nome proviene da pèrnemi (vendere) ed è legato al fatto che fossero schiave straniere. Erano considerate prostitute di infima categoria. Vivevano in condizioni poco dignitose e con uno stipendio irrisorio pagato da un pornoboskòs, spesso un cittadino qualunque, che traeva grande profitto dallo sfruttamento. Infatti esistevano dei veri e propri quartieri a luci rosse quali il Pireo ad Atene o la zona del Ceramico.
In ragione di quanto detto, risulta evidente che essere donna in Grecia significava sostanzialmente una rinuncia. La donna sposata rinunciava ad essere padrona della propria vita, in virtù di un contratto; l’etèra rinunciava ad una famiglia tradizionalmente intesa, per possedere la piena facoltà del proprio corpo ed infine le pornai rinunciavano alla propria umanità, divenendo poco più che merce.