Carlo Michelstaedter contro il groviglio della società
quando una tesi di laurea è già filosofare
Non era previsto che l’uomo non avesse più tempo, tempo per elaborare il cambiamento che eppure gli avviene tra le dita. Né che si trovasse a muovere i passi in due terreni soltanto in parte contraddittori: un benessere come mai se n’è conosciuto, al contempo un’incertezza che tuttora avanza nei riguardi della società, delle istituzioni, del mondo, dell’uomo stesso infine. Se dovesse sentirsi così colui che per la prima volta legge La Persuasione e la Rettorica di Carlo Michelstaedter (1887 – 1910), allora troverebbe un amico, prima ancora che un filosofo.
La Persuasione è – o meglio, sarebbe dovuta essere – una tesi di laurea. Fu Carlo stesso a farsela assegnare dal suo professore di letteratura greca, ma di fatto non la discusse mai: correva l’anno 1910 quando lo studente goriziano ultimava la sua tesi, litigava con la madre, e a soli 23 anni si toglieva la vita con un colpo di pistola.
La Persuasione è una tesi impresentabile, “sconveniente”. Personalissima è la sua penna mentre sfoggia Parmenide e Eraclito, Sofocle e Eschilo, non soltanto per citarli, ma per parlare la loro stessa lingua, tramite questa tracciare un filo che dai presocratici e i tragici sfuma verso tutti gli abusi del suo (nostro) tempo. Così uno scritto destinato a una commissione di professori diventa il liquore amaro di uno studente che, tradendo quell’ottimismo tipico della belle époque, mette su carta tutto il disagio giovanile per una civiltà il cui progresso “è il regresso dell’individuo”.
Da una parte, la via della Persuasione “non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato”. Al contrario, esser persuasi e persuadere è possedere se stessi possedendo il mondo, è amare e dare tutto senza ricevere niente, creare ogni cosa senza adeguarsi ad alcunché, avendo propria la propria vita.
Dall’altra, l’individuo non regge una tale sovranità, lo sfianca la solitudine, ed è allora che la Rettorica fiorisce, ma accanto alla vita. L’uomo s’adagia sui cuscini del linguaggio quotidiano, parla e s’illude che il suo parlare sia ragionare, eppure “tutti hanno ragione – nessuno ha la ragione”.
In breve, per Michelstaedter l’uomo s’accontenta, e in questo limite tutto ciò che può fare è rincorrere in una frenesia scopi via via sempre nuovi, cercando attraverso le parole un riscontro negli altri che in qualche modo lo giustifichi delle sue azioni; se anche la società garantisce una tale sicurezza, essa spezza le migliori cose soltanto per ricucirle in una trama più fitta sotto il nome della reciproca convenzione. Ecco allora che l’individuo rimane muto, incanalato com’è nella strettoia che gli è stata preparata – da chi, poi? – per poter essere percorsa laddove le scelte sorgono, ma come presupposti.
Quest’oggi ognuno di noi guarda alla società e ai suoi apparati se non con rassegnazione, perlomeno con infinita tenerezza, giacché sembra ci castighino sulle promesse più dolci; in tal modo ci spaventa il futuro e la gestione di esso, resi vacui e privi di forma, per i quali l’uomo tuttavia si ostina a sacrificarsi per intero, smarrendo per strada i pezzi della propria individualità.
Impossibile in questo non rivedersi almeno un poco nella prosa irresistibile di un filosofo che mai seppe di essere tale, dimenticato da un panorama culturale italiano che non gli lascia il giusto spazio. Nondimeno, se questa è l’eco di un pensiero purtroppo rimasto immaturo, è nei giovani in particolare che i suoi risultati tuonano in un appello che dalla Gorizia di inizio ‘900 come uno schiaccianoci ci stringe nella sua morsa, e una sola domanda ci pone incessante:
sei persuaso o no di ciò che fai?
Bibliografia:
Carlo Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, Adelphi (1982, 14° ed.)
L’immagine in evidenza proviene da https://enriconadaiblog.wordpress.com/2018/01/21/carlo-michelstaedter-e-il-coraggio-della-persuasione/