Arianna Fontanot
pubblicato 6 anni fa in Altro

Lo spirito del tempo

Edgar Morin

Lo spirito del tempo

La cultura di massa nacque come Terza-Cultura all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e fu, per la maggior parte, croce e delizia della sociologia americana di quegli anni. Edgar Morin, sociologo francese, nel suo saggio Lo spirito del tempo, riedito da Meltemi nel 2017, ritiene infatti che la mass-culture ricevette tale denominazione in seno agli ambienti dell’aristocrazia accademica americana, sul finire degli anni cinquanta del Novecento. In effetti, cinema, radio, televisione e stampa assunsero via via conformazioni più caratteristiche e specifiche proprio all’indomani della guerra; tuttavia occorre tenersi a debita di stanza da classificazioni e definizioni di comodo, poiché la nozione di cultura di massa appare troppo vincolante o troppo permissiva, a seconda dei punti di vista.

A fronte di questo, Morin rileva la necessità di considerare il dinamismo delle società postbelliche, che sono allo stesso tempo “di massa” e tecniche, burocratiche, industriali, capitaliste e individualistiche. Inoltre, sviluppa un’indagine composita, che tiene conto dei diversi e imprescindibili aspetti della relazione tra media e società a partire dalla seconda metà del XX secolo; l’autore svela, con spietata lucidità, l’ipocrisia retrostante all’immaginario collettivo, analizzando i nuovi mezzi di comunicazione e cogliendo la duplice dinamica di proiezione e identificazione che lega i membri della nuova società ai loro beniamini: i divi del cinema.

L’happy end cinematografico, infatti, è forse l’esempio più affascinante tra quelli riportati dall’autore, perché dà conto della complessità del legame che i media e lo spettatore, inconsapevole, quasi oggetto di manipolazione, si ritrovano a stringere. Esso si caratterizza come un legame simpatico (nel senso etimologico del termine) e identificativo: a partire dagli anni quaranta del Novecento, l’attore diviene gradualmente il doppio dello spettatore, e si trasforma in un vero “eroe simpatico”; l’universo tragico che è esistito fino a quel momento si restringe e le prove dell’eroe, tutte rigorosamente di breve durata, sono assunte come proprie dallo spettatore. L’immaginario è preda di una rivoluzione: ogni azione, dell’attore beninteso, non è più volta al raggiungimento della virtù, foriera contemporaneamente di gloria e di morte, ma al conseguimento della Felicità, che si esprime con la dilatazione dell’istante finale del film. L’happy end è l’irruzione della felicità sulla scena, a piccoli sorsi, ma con una forza tanto vincolante e dirompente da indurre lo spettatore, preda del voyeuristico piacere di guardare, a credere che sia possibile raggiungerla anche al di fuori del contesto cinematografico. Ecco allora che la felicità subisce una sorta di valorizzazione mitologica e che i divi si configurano come tramite fra reale e immaginario: propongono una vita felice ed attraente, senza spazio per la sofferenza prolungata. Naturalmente, il cinema costituisce uno solo dei comparti all’interno dei quali la cultura di massa s’insinua e grazie a cui s’impone sulla società, però pare importante rilevarne le peculiarità perché sembra davvero permeare ogni ambito della vita di ogni spettatore, a scapito di barriere culturali e sociali. Tutti possono essere divi, tutti possono ricevere la benedizione dell’happy end, o almeno tendervi. Le frontiere culturali e le barriere sociali cadono sotto la scure dell’eclettismo, da un lato, e dell’omogeneizzazione, dall’altro, dei contenuti dei media, che chiamano in causa l’uomo universale dell’antropologia; l’immaginario e il gioco costituiscono il dominio d’azione di questo nuovo tipo di individuo e permettono alla produzione culturale, industrializzata e burocratica, di attingere ad un comune fondo umano.

Prendendo una timida posizione nel dibattito critico (per cui rimando all’introduzione e alle numerose prefazioni del libro), si può, a mio avviso, dire che i detrattori di Edgar Morin, vittime di una specie di manicheismo sociologico, hanno, forse, mal considerato la portata rivoluzionaria di quest’opera. Infatti, se è vero che la mass culture si configura come oggetto dello studio, è altrettanto vero, e su questo concordo con l’autore, che per comprenderne a fondo le dinamiche occorre viverla, respirarla, lasciare che s’insinui e che allontani quell’atteggiamento da highbrows accigliati, che spesso si ha, nei confronti della, direi aurea, mediocritas.

 

 

 

 

L’immagine in evidenza deriva da: https://thestash.wikileaf.com/cannabis-pop-culture/