Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Altro

37 astanti indifferenti e un omicidio

37 astanti indifferenti e un omicidio

Una delle caratteristiche riscontrabili nella società contemporanea è sicuramente una tendenza diffusa all’individualismo e forse una generale perdita di empatia verso il prossimo. Se volessimo trovare una prima spiegazione a tutto questo, potremmo dire che la vita sempre più frenetica ed il moltiplicarsi degli stimoli a cui il nostro cervello è sottoposto ogni giorno ci spinge in alcuni casi a soffermarci poco sulle relazioni interpersonali e a valutare con poca attenzione molti aspetti della realtà che ci circonda. A pensarci bene sembra quasi che una moltitudine di interazioni superficiali con gli altri abbiano preso il sopravvento su quelle che dovrebbero essere le poche relazioni significative che davvero contano ma il tratto più caratteristico e forse più evidente della modernità è una deresponsabilizzazione diffusa circa le problematiche sociali che più ci interessano e a cui si stenta a trovare una soluzione definitiva.

Le riflessioni che sorgono osservando l’andamento delle relazioni umane nella quotidianità sono inerenti a molti contesti tra i quali non è di certo escluso quello dell’altruismo e quale ruolo svolga nelle dinamiche sociali. Come per tutti i fenomeni umani anche per l’altruismo è complicato trovare una definizione univoca che lo descriva. Tuttavia la psicologia sociale lo definisce come una

serie di comportamenti volti ad aiutare gli altri senza trarne benefici per se stessi

Uno degli eventi che stimolò la ricerca in quest’area fu un caso di cronaca nera che sconvolse tanto gli studiosi quanto il senso comune, l’assassinio di Catherine Susan Genovese, meglio nota come Kitty, una donna italoamericana che fu uccisa davanti agli occhi di numerosi astanti che stentarono a prestarle soccorso. Era la notte tra il 12 ed il 13 marzo del 1963 quando la giovane di 28 anni, come ogni sera, stava rincasando dall’Ev’s 11th Hour Sports Bar, un locale dove lavorava ormai da molti anni. Mentre si stava incamminando verso lo stabile dove abitava fu raggiunta da Winston Moseley, un uomo che conduceva all’apparenza una vita normale ma che quella sera uscì di casa con lo scopo di rendere la notte indimenticabile. La situazione degenerò velocemente. Erano all’incirca le 3 di notte quando Kitty fu aggredita da Moseley, mosso dall’istinto, come dichiarerà in seguito lui stesso, di uccidere qualcuno. La donna non ebbe il tempo di avvicinarsi alla porta di casa che fu raggiunta da alcuni colpi ma nonostante le ferite ebbe la forza di iniziare una colluttazione con l’aggressore, proprio come le contusioni rinvenute sulle sue mani in seguito lasciarono intendere. Aumentando le urla della ragazza e lesue reiterate richieste di aiuto, stando alla ricostruzione dei fatti, alcune persone si affacciarono alla finestra per cercare di capire cosa stesse avvenendo mentre una cospicua parte dei testimoni dichiarò di aver confuso le richieste di aiuto di Kitty per le urla di un ubriaco, cosa che nelle ore più tarde della notte non era insolita nelle strade del Queens, a New York. Uno degli astanti, affacciatosi alla finestra per verificare cosa stesse accadendo, resosi conto della situazione, gridò contro Moseley la frase lascia stare quella donna!, cosa che bastò a mettere in fuga in un primo momento l’aggressore.

Le parole dei testimoni alla polizia, dunque, non sembravano descrivere la scena di un crimine e nessuno, tra le forze dell’ordine, sembrò preoccuparsi della sorte di Kitty, tanto meno corsero in suo soccorso quella notte. Moseley, probabilmente spaventato dalla possibilità di essere stato identificato dagli astanti, entrò nella sua auto e si diede alla fuga, tornando in seguito sulla scena del crimine per completare il suo delitto ai danni di Kitty, che si era trascinata agonizzante sul retro dello stabile. Al concludersi dell’intero attacco finalmente la ragazza fu portata d’urgenza in ospedale, sfortunatamente quando ormai era troppo tardi.

Le urla e le richieste d’aiuto della donna, perpetrate durante l’assalto, lasciavano di certo ben pochi dubbi sulla gravità di quanto stesse avvenendo ma nessuno prestò soccorso concreto alla vittima. A seguito di quanto avvenuto fu pubblicato sul New York Times un articolo di Martin Gansberg con un titolo inequivocabile: 37 who saw murder didn’t call the police. Il caso sconvolse l’intero paese tanto da indurre due psicologi sociali, John Darley e Bibb Latanè, a condurre una ricerca volta a comprendere per quale motivo nessuno abbia davvero fatto qualcosa per aiutare Kitty quella notte. Gli studi portarono all’identificazione di un importante fenomeno della psicologia sociale, il cosiddetto ‘baystander effect’, l’effetto astante.

Stabilita l’ipotesi di partenza, ovvero che data una situazione d’emergenza “la presenza degli astanti può rendere meno probabile che qualcuno intervenga”, si procedette alla sua verifica concreta. Furono diversi gli esperimenti volti a rilevare l’effetto spettatore e le variabili che lo influenzano, nel dettaglio l’esperimento tipo era strutturato in modo tale da mettere il soggetto sperimentale nella condizione di dover fronteggiare una situazione improvvisa; in ogni esperimento, veniva misurato il tempo che intercorreva prima che egli facesse qualcosa.

Per comprendere correttamente il funzionamento dietro l’effetto astante è necessario ricordare che in un contesto d’emergenza l’individuo è tenuto ad intervenire rapidamente ma prima di arrivare ad attuare un’azione concreta ha bisogno di una complessa elaborazione cognitiva di quanto sta vivendo. Deve infatti interpretare la situazione, valutare quale sia la propria responsabilità nella vicenda e decidere di intervenire o meno. Questo processo non è sufficiente a spiegare in maniera esauriente per quale motivo si decida o meno fare qualcosa in determinate circostanze. Si attua infatti in concomitanza di due fenomeni sociali che ci aiutano a comprendere le dinamiche che si manifestano in determinati contesti e che è bene tenere a mente : l’ignoranza collettiva e la diffusione di responsabilità. Se volessimo spiegare in parole povere cosa si intenda per ignoranza collettiva potremmo dire che è la tendenza delle persone a dare per scontato che vada tutto bene,o a non ritenere comunque necessari particolari interventi, solo perché gli altri non dimostrano una particolare preoccupazione e non sembrano agire in alcun modo. Dobbiamo tener presente che in situazioni particolari si ha la tendenza ad osservare ciò che fanno gli altri per trarne delle conclusioni su quale sia il comportamento da attuare così come gli altri si aspettano di capire da noi cosa bisogna fare. Per questo motivo spesso nessuno è in grado di prendere le redini della situazione. Il fenomeno dell’ignoranza collettiva è strettamente connesso a quello della diffusione della responsabilità. Se in primo luogo ci si aspetta di trovare negli altri una risposta interpretativa a determinate situazioni è la stessa presenza degli altri a farci sentire meno responsabili di ciò che sta avvenendo. Quando un individuo si trova a condividere una situazione con altre persone, nei casi in cui le responsabilità non sono specificate per la singola persona, penserà che gli altri abbiano il suo stesso grado di responsabilità nel fare qualcosa e quindi non si sentirà particolarmente chiamato ad agire.

Viene da se che più il numero dei presenti è altro più il senso di responsabilità è ‘diffuso’. Tutti questi elementi concorrono alla delineazione dell’effetto astanti: la presenza di altri può rendere meno probabile che qualcuno agisca, perché ogni persona si affida alle altre presenti nella situazione per farsene guidare. La morte di Kitty Genovese non è solo un particolare caso di cronaca nera,  ma ci induce a riflettere profondamente sulle nostre reazioni quotidiane agli eventi. È il frutto di complicate dinamiche sociali che dobbiamo imparare a riconoscere e gestire. Siamo sempre consapevoli di ciò che sta succedendo intorno a noi? O ancora, ci assumiamo sempre la piena responsabilità delle nostre azioni, agendo in prima persona, o ci facciamo influenzare dai contesti? Scavando nella memoria possiamo sicuramente identificare almeno una situazione a cui abbiamo attribuito cause e significato in base a ciò che la socializzazione ci ha indotto a pensare. È importante migliorare diventando più consapevoli delle nostre azioni. Ciò che il caso Genovese e gli studi di Darley e Latanè ci insegnano è quello di non dimenticarci mai di agire in prima persona sugli eventi e di non fidarci solo ed esclusivamente di quello che le circostanze ci inducono a credere. Pur considerando ciò che gli altri fanno e ci dicono è bene non smettere mai di porci domande.

 

Bibliografia:

– Martin Gansberg, 37 who saw murder didn’t call the police (I 37 che hanno visto l’omicidio non hanno chiamato la polizia), New York Times, 27.3.64.
– Darley e Latanè, The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?
– Darley e Latanè, Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility
– A.M. Rosenthal, Thirty-Eight Witnesses: The Kitty Genovese Case
– Fathali M. Moghaddam, Manuale di Psicologia Sociale

 

Articolo a cura di Michela Leo

 

L’immagine in evidenza proviene da: https://people.com/crime/documentary-explores-kitty-genoveses-notorious-1964-murder-did-38-people-really-watch-and-do-nothing/