Il trono e il maiale
«Maybe there is a beast. Maybe it’s only us» – William Golding, Lord of the flies
«Power resides where men believe it resides» – George R.R. Martin, Game of Thrones
Il potere è un qualcosa di scivoloso, arbitrario; sia nelle forme che prende, sia in qualunque nostro tentativo di definizione. Poiché è da sempre uno dei centri di attrazione del pensiero occidentale, risulta impossibile valutarlo univocamente. Su questa premessa gioca la frase che George R.R. Martin mette in bocca a Varys: non esiste un solo potere; è creatura multiforme e imprendibile – un’ombra sul muro – che assume sembianze diverse a seconda della persona che lo guarda.
Possiamo riconoscere un punto fermo nel Trono di Spade: violentare gli stilemi e gli stereotipi del genere, togliendo al fantasy quella scontatezza guadagnata in decenni di noia, e arricchendo la trama con un carico simbolico che gli ha ridonato dignità letteraria. Quella che emerge da Game of Thrones è però a prima vista una visione del potere canonica. La maggior parte dei personaggi porta con sé un sostrato che, al fianco del piano psicologico, lo denota da un punto di vista simbolico come incarnazione di un tipo di potere. Per Cersei è il potere dell’autorità politica e militare, per Tywin quello del denaro, la Montagna rappresenta il potere violento, e così via. Il potere in questo caso si presenta come una caratteristica che permette a certi individui di porsi in una posizione più elevata rispetto agli altri e quindi di modificarne i comportamenti secondo la propria volontà; è la forza in grado di plasmare il mondo. Potrebbe sembrare che il suo significato si sovrapponga a quello etimologico di “capacità o possibilità di agire”, ma ci sono elementi che portano a una lettura più approfondita.
Varys è un personaggio che, per quanto venga dipinto come figura che si muove al di là della concezione canonica del potere, non sembra rispecchiare l’ideologia dell’autore. Anche se Game of Thrones condanna l’eroismo epico come vano e irrealistico, rimane fondamentalmente un racconto epico. Varys è machiavellico, contorto; in lui il senso etico è smorzato da un’ideale di bene superiore: l’intero piano per educare e portare al potere il giovane Targaryen (tagliato nella serie) come sovrano retto e giusto è l’unica cosa che conta. Tutto il resto è per lui minore, sacrificabile. Le vite e la morale vengono messe da parte. Per Varys vedere oltre il velo è abbattere le sovrastrutture sociali, morali, politiche, e sostituirle con un’idea preparata a tavolino. Ma nel mondo creato da George R.R. Martin non c’è spazio per le utopie: la complessità del reale (e delle persone) rende vano qualunque tentativo di calcolo, e porta inevitabilmente questi personaggi alla propria distruzione.
La lettura che Varys dà del potere ricalca in fondo la massima marveliana «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Il potere è cosa data, acquisita attraverso una caratteristica estranea (denaro, violenza, superpoteri…), e solo attraverso un processo di maturazione si può arrivare a un suo uso etico e pieno. Questa visione pone però un interrogativo: il potere senza responsabilità è ancora potere? La Marvel risponde sì: è potere malvagio. Ma la dicotomia buoni/cattivi non appartiene alla realtà più complessa che i creatori della serie David Benioff e D.B. Weis hanno ricreato sulle tracce di Martin. In fondo, è proprio questa visione semplificata a creare il gioco dei troni. Il potere nel suo senso più canonico, marveliano, all’interno di una realtà complessa è solo un gioco, una scaramuccia infantile dove lo scopo è vincere per vincere, dove tutti sono buoni e cattivi al contempo. In questa accezione il potere diventa un’ombra, imprendibile, multiforme: il ribaltamento dato dal vincitore del gioco altera la concezione stessa del potere, e, di conseguenza, scambia continuamente il ruolo di eroi e cattivi. Questa è la certezza con cui Martin violenta l’epica: il potere è intrinsecamente prospettivistico; non ha la forza per essere assoluto, ma non può neanche essere ignorato. Il suo essere reale ma umbriforme crea una molteplicità di mondi diversi, ciascuno retto da una sua diversa rappresentazione. La sua pretesa di plasmare il mondo è quindi fallace e priva di valore reale.
A conferma di ciò i potenti del Trono di Spade non hanno, a ben vedere, alcun potere nel suo senso etimologico: la possibilità di agire gli è preclusa. Come il Macbeth si trova ingabbiato nella profezia delle tre Sorelle Fatali e non può nulla all’infuori del destino promesso, una profezia segna anche le scelte di Cersei, spingendola a rimanere follemente attaccata al trono anche dopo la morte dei tre figli (i quali, all’inizio, sembravano l’unica ragione che la spingesse ad essere regina). Tywin, ossessionato dal trasmettere il potere al figlio Jaime, verrà distrutto proprio per la sua incapacità di accettare altre possibilità. Gregor Clegane, trasformato in non-morto, non ha alcuna volontà se non la violenza pura. Lo stesso Tyrion – pur comprendendo più chiaramente il gioco –, non riesce a staccarsene e a seguire desideri che non siano il potere stesso. Per questi personaggi mantenere il potere è l’unica strada possibile; l’ossessione di perderlo, legata ai fantasmi personali di ciascuno, determina le azioni in un’unica possibile direzione.
Martin sembra suggerirci che il potere in senso canonico non permette la propria negazione. In altri termini, la potenza non accetta la possibilità di non trasformarsi in atto, anzi: è tale solo nel momento in cui diventa atto; come se potessimo riconoscere il potere solamente nel suo esercizio.
Questo paradigma si sposa alla perfezione con l’eroe marveliano più classico: Peter Parker, Tony Stark, Bruce Banner, nella loro forma non supereroistica li percepiamo come deboli. Anche Spiderman, nonostante mantenga i poteri anche quando è Parker, risulta in fin dei conti un impotente, non potendo rivelare la propria identità segreta. Solo la mutazione, il loro indossare il costume, crea simultaneamente potenza e atto, e gli dona potere. Se volessero mantenere il potere non avrebbero altra scelta se non rimanere mutati.
Il potere canonico nel Trono di Spade rimane quindi tale anche laddove non si accompagni alla responsabilità. Il suo infinito autoalimentarsi, per la logica bambinesca del potere per essere potenti, non può coesistere con un concetto di responsabilità.
Viene in mente a questo proposito il film del 1963 di Peter Brook, Il signore delle mosche. Il film ricalca praticamente nella totalità il romanzo di Golding, ma scarnifica i passaggi che danno più profondità psicologica al racconto. Quello che Brook sembra voler fare è protendersi verso l’invisibile, asciugare il lato umano per estrarne il volto simbolico. In quest’ottica la responsabilità diventa nucleo centrale. La società che i ragazzini costruiscono è imperniata sul potere e sulla delega della responsabilità. L’obiettivo è l’attesa, l’arrivo di qualcuno che si prenda la responsabilità di tutti loro, delle loro azioni. È una società monca, che non ha prospettiva futura di sé, che si rintana in sé stessa con la coscienza di non poter sopravvivere.
In questa vacanza di potere e responsabilità, Ralph agisce come apollineo delegato di un potere riconosciuto ma non presente (anzi: presente ma morto), e vede in quel potere l’unica salvezza. Jack, all’opposto, arriva piano piano a scontrarsi con la prospettiva di Ralph dell’attesa; riconosce il potere come sostanza violenta e dionisiaca, arcaica ma sempre attuale, e rifiuta di riconoscere a un lontano mondo adulto qualunque potere. Ma il suo esercizio esclusivo del gioco violento e selvaggio della sopravvivenza e del godimento lo costringe a delegare il potere più profondo al totem della testa di maiale. Se per Ralph la responsabilità è delegata agli adulti, per Jack invece a un feticcio. Ma il potere di quel feticcio è marcio, corrotto; proprio l’incapacità di dare alla responsabilità non solo corpo ma anche atto, fa sì che quel potere sia statico, incompleto, aberrante. A Jack manca un passo; forse piccolo, insignificante, ma che determina la differenza tra potere e non potere nel senso più profondo del termine.
Anche se è lui a reggerlo nel modo in cui gli altri lo vedono, non è quindi Jack a detenere il potere, ma la testa di maiale. Se, come Simon afferma rivelando a tutti una soluzione – definitiva ma inascoltata – «Forse c’è una bestia, forse siamo solo noi», allora il potere di affrontare la bestia non lo possiede nessuno. Non Jack, che delega alla testa di maiale la facoltà effettiva di combatterla, ma neanche Ralph che, pur essendo l’unico a riconoscere la morte di Simon come omicidio, non si fa erede della sua intuizione e rinnega il mostro, racchiudendo in una moderna logica di buonsenso il percorso da intraprendere. Ralph è il buono solo in apparenza; lo sguardo di Jack riesce a penetrare molto più in profondità nel reale, e dimostra un coraggio quasi superomistico nell’accettare il potere come gioco eterno, come caos naturale delle azioni umane. Quello che non riesce ad accettare è la responsabilità che quel potere comporta; nel finale, messo di fronte a un potere investito di responsabilità che si palesa nel marinaio – ferocemente candido, immacolato, quasi angelico – il potere di Jack crolla e si rivela per quello che è sempre stato: un gioco. Non sappiamo se l’angelo abbia il potere di sconfiggere la bestia. Non arriva mai a incontrare il polo di potere opposto, la testa di maiale (“Signore delle Mosche” nella tradizione cristiana è epiteto e traduzione di Belzebù), quindi l’interrogativo su quale dei due poteri – se quello dionisiaco, statico, corrotto o se quello apollineo, equo e immacolato – sia il più adatto per sconfiggere la bestia, rimane senza risposta.
Ecco che, prendendo in considerazione questa prospettiva, il dualismo potere e responsabilità assume un altro volto. Il potere in senso canonico è messo in disparte, bollato come rigurgito infantile, ed è sostituito da un potere ontologicamente diverso. Il suo rapporto con la responsabilità non è più di causa-effetto, ma di coincidenza. Il potere non dà la scelta se assumersi o meno responsabilità, ma si ha nel momento in cui la si assume. La natura del potere non è più esterna all’uomo, ma è da ricercare nel suo interno, nelle scelte e nelle azioni che compie.
Se la natura del potere non è più estroflessa verso il mondo, viene da pensare alla lettura agambeniana dei concetti aristotelici di atto e potenza: l’esercizio del potere non è più un atto che si sovrappone alla potenza, ma è anche, e soprattutto, la potenza che non si trasforma in atto. Di più: il potere è la possibilità di scegliere che la potenza non si trasformi in atto.
La carrellata dei potenti di Game of Thrones subisce così un colpo mortale; se il loro potere è nell’esercizio del potere stesso, e la loro ambizione è esercitare quel potere fino alla fine, allora non hanno in realtà alcun potere. Si ristabilisce così il senso etimologico della parola, come possibilità, come dominio sulle proprie azioni.
Anche Daenerys perde potere da questa prospettiva: la sua attitudine a imporre una morale, a risolvere tutto con un superpotere quasi marveliano (i draghi), la fanno apparire al pari di Cersei e Gregor Clegane, aggrappata ossessivamente a un potere autoreferenziale. Tanto più che la sua impotenza, al di là della categorizzazione arbitraria bene/male, viene a galla nel momento in cui è costretta a incatenare i suoi draghi, e ad affiancarsi così all’impotenza di Banner, Parker e Stark nelle loro vesti normali.
Ecco che l’eroe martiniano comincia a prendere forma. Manca però un passaggio fondamentale: come acquisire la responsabilità? Se vediamo la responsabilità come riconoscimento delle proprie azioni e delle conseguenze, il processo necessario è quello della comprensione. Per arrivarvi, Martin suggerisce il passo antropoietico necessario: la perdita dell’identità. Gli eroi di Martin sono coloro i quali passano attraverso una perdita – figurata o reale, temporanea o definitiva – del proprio io.
Solo attraverso la perdita dell’io, di ciò che so («You know nothing, Jon Snow»), di ciò che non posso accettare come individuo («all men must die»), degli impedimenti imposti dalla condizione di essere umano («You will never walk again, Bran, but you will fly»), posso acquisire la comprensione delle cose e del mio posto nel mondo.
In questo paradigma, anche altri personaggi sembrano adatti all’eroismo e alla responsabilità; Jaime, Theon, Sam (Daenerys, è importante ribadirlo, non lo è: la sua identità non viene mai persa, ma anzi il suo io è un tronfio affastellarsi di nomi e identità multiple), ma soffrono di una mancanza che ha il sapore di predestinazione: il metalupo. I metalupi sono la bestia di Simon, la rappresentazione simbolica del potere di addomesticare il mostro.
Lo spogliarsi dell’io, andando a ricercare le radici – anche nichilistiche – del proprio essere, per poi ricostruirsi su una base di comprensione più ampia, è la strada comune che dionisiaco e apollineo trovano per convivere con il mostro. Da questo punto si generano parimenti responsabilità e potere, che rendono evidente l’assurdità del potere nella sua forma canonica: il trono.
Così Jon, nel portare a termine personalmente l’esecuzione di Slynt, disconosce il potere che la corona rappresenta comprendendo la natura infantile del gioco dei troni.
Così Arya; nel fare suo il dogma valar morghulis, comprende che tutti gli uomini sono mossi dalla stessa paura, e che sono uguali davanti alla morte: il potere canonico è sovrastruttura di questa paura; superarla significa superare il potere stesso.
Così Bran, nel suo percorso iniziatico, coglie la futilità del gioco dei troni davanti al valore ben più grande degli Estranei, portavoci e simboli di un potere che trascende l’umano.
Nel gioco dei troni l’eroe è chi smaschera il gioco stesso e si assume la responsabilità di ribaltarlo.
Il racconto di Martin, quindi, parte sia come distruzione dell’impianto stilistico e strutturale del genere, sia come riflessione sul concetto di potere; ma in profondità muove altri fili. Quel potere su cui sembra riflettere viene in realtà smembrato, sostituito da un qualcosa che non è più ombra, ma ha un valore reale, assoluto. E il riconoscere a quel valore assoluto la sua centralità, la sua forza, fa di Game of Thrones una saga classicamente fantasy; il genere, dopo essere stato distrutto, viene ricostruito su basi più ampie, proprio come l’identità dei suoi eroi. Il messaggio è quello fondamentale di ogni racconto epico: il potere non è la capacità di plasmare il mondo, ma quella di plasmare noi stessi.
di Cosimo Monari