«Amo mi exilio» – María Zambrano e Cuba
María Zambrano, filosofa spagnola, nasce nel 1904 a Véléz-Malaga, in Spagna, da Blas José Zambrano e Araceli Alarcón Delgado, una donna dal sorriso accogliente e una dolce ironia. L’affetto che prova nei confronti del padre, «il maestro del vedere», è immenso: è grazie a lui che la filosofa impara ad assumere uno sguardo obiettivo verso la realtà circostante. Inoltre, ha una sorella di nome Araceli, grazie alla quale ha scoperto, come dirà in un’intervista, la cosa più importante in assoluto: la sorellanza. Zambrano e Araceli rimangono divise a lungo a causa dell’allontanamento dalla Spagna imposto alla filosofa filorepubblicana all’indomani dell’instaurarsi della dittatura di Francisco Franco. Si incontrano dopo molti anni dalla separazione e, tra le varie esperienze, condividono quella decennale a Roma (1954-1964).
In un’intervista, María Zambrano descrive il suo rapporto con la filosofia e narra dei momenti in cui voleva abbandonare questo percorso poiché si sentiva negata e incapace di studiarla. Allo stesso tempo, racconta di come una vocazione, per essere autentica, debba dapprima vacillare, essere messa in discussione e poi interiorizzata e, soprattutto, scelta una seconda volta, riconfermata.
I suoi maestri sono tre grandi pilastri della filosofia spagnola novecentesca: Miguel de Unamuno, José Ortega y Gasset e Xavier Zubiri.
María Zambrano partecipa attivamente alla vita politica della sua città. Gli anni ’30 in Spagna sono burrascosi: il paese deve affrontare sette anni di dittatura da parte di Primo de Rivera (1923-1930) al termine dei quali viene proclamata, il 14 aprile 1931, la Repubblica. Questa dura cinque anni a causa dello scoppio della guerra civile avvenuto nel 1936, conclusa soltanto tre anni dopo con l’ascesa di Francisco Franco.
Per tutti coloro che hanno sostenuto la Repubblica e che desiderano mantenere vivo il sogno di una Spagna nuovamente repubblicana sono anni molto complessi e difficili. È in questo clima che si colloca l’esodo di Zambrano e di circa cinquecentomila donne e uomini: per la filosofa, il periodo di vagabondaggio durerà ben 45 anni! Durante questo intervallo di tempo, Zambrano sperimenta l’estraneità, lo spaesamento e la perdita di senso. Sono molti i posti toccati dal suo errare: Messico, Puerto Rico, Cile, Venezuela, Cuba, Parigi e Roma, alla quale dedica pagine intense e bellissime a proposito delle sue rovine.
Nel 1984 torna in Spagna, dove muore nel 1991. Al suo rientro, afferma con forza e convinzione: «amo mi exilio», amo il mio esilio. Questa è un’affermazione che merita di essere chiarita poiché non è di immediata comprensione e condivisione: in che senso ha amato questo lungo periodo di lontananza forzata dalla sua madrepatria? Che evoluzione ha avuto il suo pensiero filosofico?
Per rispondere ai quesiti aperti, bisogna soffermarsi su una tappa del suo lungo peregrinare: Cuba. Tuttavia, prima bisogna soffermarsi un momento su alcune questioni preliminari. (con isola in corsivo si indica l’isola in senso generale; l’isola non in corsivo, invece, è Cuba).
L’isola viene considerata da Zambrano un luogo in cui è possibile ritornare in contatto con la naturalezza e l’innocenza proprie di un’età originaria grazie alla sua lontananza geografica dal resto dei continenti: l’isolamento fa sì che le isole siano completamente prive di qualsiasi tipo di «perturbazione continentale». Nel suo pensiero, l’isola rappresenta una sorta di paradiso perduto, un luogo di godimento, a differenza del continente che è invece il posto in cui fatica e lavoro regnano.
Risiedere in particolare nelle ex colonie, nello specifico Cuba e Puerto Rico, restituisce a Zambrano la sensazione di vivere nel passato glorioso dell’impero spagnolo: quei territori continuano ad essere, in un certo qual modo, le viscere storiche del suo antico dominio.
L’isola non evoca nell’uomo europeo e in particolare in quello spagnolo solo il sentimento nostalgico, ma anche la speranza. Quest’ultima si configura come il percorrere a ritroso il fallimento del passato e pure l’angoscia del presente, per riscattarli mediante l’azione salvifica del delirio. Infatti, se quest’ultimo non frantumasse il passato, non lo rianimasse per gettarlo verso il futuro, la vita perderebbe la sua dinamicità e la verità non potrebbe entrare nell’esistenza. Ovviamente, perché sia possibile fare ciò, per Zambrano è necessaria una ragione che non sia quella razionale europea ma che si apra al sentimento, alla poesia, alla sfaccettatura carnale dell’uomo; una ragione che abbracci e salvi le viscere della storia individuale, spagnola, europea. Questa ragione viene denominata ragione poetica.
Dopo questa panoramica sul pensiero insulare di María Zambrano, concentriamoci ora su Cuba.
La filosofa si reca sull’isola nel 1940 come professoressa invitata dall’Instituto de Altos Estudios e Investigaciones Científicas de La Habana. Inizialmente, doveva essere un luogo transitorio, un territorio in cui trascorrere una vacanza invernale insieme ai suoi colleghi, poi si è trasformato in radicamento; inizialmente l’isola caraibica era luogo di preoccupazioni e angustie causate da ostacoli intellettuali. Poi è diventata luogo mistico e culla di rivelazione, una rivelazione fondamentale per la sua filosofia.
Zambrano infatti a Cuba elabora il nucleo centrale della sua riflessione, ovvero la ragione poetica, citata pocanzi: per riprendere le sue parole, «un metodo di riflessione filosofica che corrisponde a una nuova forma di comprensione più concreta e rivelatrice».
Questo periodo è, inoltre, teatro di nuove conoscenze e risulta perciò importante per Zambrano persona: qui incontra intellettuali di un certo rilievo, come Lydia Cabrera, scrittrice cubana, famosa per i suoi studi sulla cultura e la religione afro-cubana, e José María Chacón y Calvo, accademico e critico letterario cubano, e molti altri, i quali la aiutano a superare gli ostacoli e le difficoltà, in primis nell’ambito accademico. Sull’isola Zambrano è molto attiva nel contesto culturale: entra a far parte di Orígenes, rivista guidata dal poeta José Lezama Lima e di grande rilevanza all’epoca in quanto in quella Cuba pre-rivoluzionaria, caratterizzata dal vuoto culturale, la rivista risponde al desiderio degli intellettuali di creare uno spazio creativo e educativo.
Cuba è anche un punto di vista: dall’isola caraibica, la filosofa, lontana dall’Europa, ha la possibilità di osservare da fuori le situazioni del vecchio continente, di penetrare le viscere della sua storia.
Ma non solo. Cuba è molto di più. Infatti, se per Zambrano la Spagna costituisce la sua patria biologica, il luogo dove ha visto la luce per la prima volta, in cui è stata introdotta nel mondo degli uomini, l’isola caraibica è la sua patria pre-natale: a La Habana ha ritrovato sé stessa bambina, il suo essere vicina al mistero, caratteristica propria di chi è da poco nato. Infanzia e esilio vengono dunque associati, giacché ogni bambino si sente esiliato per il fatto che, pur essendo più vicino al mistero e all’origine, viene da quest’ultima separato attraverso la nascita. Dunque, non solo nell’adulto, in quanto lontano da quel punto di inizio, ma già nell’infanzia si fa sentire la sensazione di rottura.
La nascita per Zambrano si lega perciò all’esilio ed è una tragedia perché nascere equivale a dover accettare di abbandonare l’oscurità in cui l’essere umano è immerso e affrontare la luce e tutto ciò che vi accade. L’uomo nei confronti della nascita, dunque, prova orrore e nostalgia verso un Paradiso terrestre perduto. Di fronte a ciò, l’uomo ha due possibilità: dis-nascere o nascere nuovamente. Quest’ultima è la strada imboccata dalla cultura occidentale a partire da Socrate: il prepararsi alla morte, tema pervasivo della filosofia occidentale, si può dare solo mediante una seconda nascita. Il des-nacer, invece, ovvero la prima possibilità, può essere tradotto letteralmente con «dis-nascere, o s-viversi»: è il percorso che suggerisce all’uomo di disfare ciò che ha pensato per poter immaginare quel luogo oscuro e puro che secondo Zambrano è un pensiero che sta «sempre “sul punto di nascere”, capace di procedere dalla libertà e dall’indipendenza». Il concetto del des-nacer ha a che fare con la memoria perché è proprio attraverso il movimento del dis-nascere che l’uomo ha accesso al ricordo e, così facendo, lo riscatta in quanto lo riconsegna alla luce e gli dà, di conseguenza, l’occasione di nascere nuovamente.
Pertanto, per Zambrano la nascita ha a che fare con la memoria e, di conseguenza, con uno stare a contatto con la propria interiorità. Rinascere significa rivivere e riscattare ciò che la coscienza ha gettato nel fondo oscuro (patria pre-natale) al fine di accettare sé e la propria storia. In altre parole, per Zambrano la nascita è un ̔rinascere di sé ed è proiettata verso un passato da redimere per poterlo riattualizzare, affinché l’uomo accetti sé e la sua storia.
Riassumendo, la filosofa ha viaggiato molto a causa delle idee divergenti rispetto al regime insediatosi all’indomani della caduta della repubblica: l’esilio, in particolar modo nell’isola caraibica, è stato un momento di grande fioritura filosofica. La filosofa ha saputo trarre un insegnamento e una nota positiva dall’esperienza obbligata lontana dalla sua madrepatria. L’esilio è stato per lei “come” una sorta di «patria sconosciuta», che però, una volta conosciuta, è diventata «irrinunciabile» al punto tale da dichiarare di aver provato difficoltà ad abbandonarla. Ritornare ha significato lasciare alle spalle il passato per abbracciare il futuro e una nuova vita in un posto che è finalmente la sua patria.
La fatica del ritorno viene descritta come una sensazione di scorticamento, come se l’esilio, per la sua durata, fosse divenuto una seconda pelle. Ritornare nella sua patria ha significato privarsene.
Ciò non significa che Zambrano non sarebbe mai voluta ritornare in Spagna. Tuttavia, per fare eco alla sua affermazione sull’irrinunciabilità dell’esilio e la fatica che le è costata tornare, si può affermare che dopo tante difficoltà e tribolazioni la filosofa è riuscita a trovare la forza di essere resiliente. Una volta che le condizioni si sono fatte propizie, ha fatto ritorno perché quello era il suo destino: assolvere fino in fondo il compito dell’esiliato.
In conclusione, accettare la condizione di esiliata ha significato «abbandonare la vita errante e accogliere l’orizzonte dell’esilio», ovverosia trovare una forma, determinarsi. L’esiliato che danza ed è continuamente mosso dal vento perché privo di radici è anche un essere in un certo senso indeterminato, vago. Accettare significa fermarsi, radicarsi e riscoprire la verità della propria vita. E forse è proprio questo uno dei più profondi insegnamenti lasciati da María Zambrano.
di Edith Valetti