Aiuto – Valentina Di Cesare
un grido tanto più forte quanto più silenzioso
La scrittrice Valentina Di Cesare ci parla di “aiuto”, ovvero del tema della “partecipazione reale al dolore altrui”, centrale nel romanzo L’anno che Bartolo decise di morire.
Nel mio secondo romanzo L’anno che Bartolo decise di morire edito da Arkadia nel 2019, il tema dell’aiuto, della partecipazione reale al dolore dell’altro, del tentativo di avvicinarsi veramente alla sofferenza altrui è uno dei nuclei centrali della storia. Il romanzo è in terza persona: è un testo piuttosto breve, di poco più di cento pagine e Bartolo, che non definirei il protagonista (non ce ne sono mai secondo me, perlomeno in senso assoluto, né nella letteratura né nella vita) racconta poco di sé, lasciando che la sua personalità si riveli attraverso il racconto indiretto dei suoi amici di infanzia, tutti presi dai propri problemi personali e mai effettivamente pronti a prestare ascolto nei confronti del proprio vicino. Essere accecati da sé stessi, al di là di quel che può significare su un piano relazionale e sociale, è un dramma esistenziale, forse uno dei peggiori, com’è allo stesso modo un dramma illudersi di ricevere in cambio l’attenzione e la cura che si sono sempre offerte, seppur spontaneamente e senza secondi fini.
Mentre la vita scorre apparentemente come sempre nella piccola e imprecisata città di provincia in cui sono ambientati i fatti, da qualche tempo un velo rende lo sguardo di Bartolo più cupo, il suo passo è meno svelto, le sue parole sono sempre più rare, l’energia dei discorsi si è affievolita. Bartolo conosce bene i suoi amici, sa che probabilmente le sue aspettative nei loro confronti sono troppo ottimiste ma una piccola parte dentro di sé ama pensare che qualcuno di loro si accorgerà delle sue ombre e anche di quelle di Lucio, da poco disoccupato e per questo depresso.
Le ombre però, si sa, può intuirle e seguirle soltanto un occhio attento. Che questo occhio attento dedichi del tempo alle ombre altrui, appunto, non vuol dire poi che riesca a impugnarle e a sconfiggerle ma perlomeno non è avaro in tentativi. Altro discorso vale invece per occhi decisamente meno accorti.
Ho scritto questo romanzo per cercare di raccontare quanto sia importante rispettare sé stessi nell’offrire aiuto a chi ne ha bisogno. Aiutare richiede impegno, esattamente come farsi aiutare: si tratta di azioni che esigono un distacco dalla nostra dimensione egoistica, dalle comodità e dall’idea che ci siamo fatti di noi stessi e di chi ci sta intorno. Bartolo ha trascorso la propria vita sino a un certo punto in maniera univoca, dedicandosi eccessivamente agli altri e tralasciando sé stesso. Dinanzi ai suoi comportamenti ci si domanda se tutta quell’attenzione deviata sul prossimo non sia soprattutto un tentativo di distoglierla da sé, dai suoi turbamenti più importanti, da cui fugge appena può. Dal canto loro gli amici mostrano l’altra faccia della medaglia: una vita intera ripiegati esclusivamente sulle proprie questioni li ha resi ciechi nei confronti di ogni cosa, in primis di loro stessi. Forse Bartolo si è dedicato eccessivamente all’aiuto degli altri per fuggire da sé e dalle spiacevoli verità messe a nudo giorno dopo giorno dalla vita adulta. Un giorno si salverà, cambiando inesorabilmente rotta. Gli amici invece non osano, non sanno né sapranno mai aiutare, né gli altri né soprattutto se stessi. Per loro, il prezzo da pagare sarebbe quello troppo alto di abbandonare le proprie galere dorate, di cui sono al contempo guardiani e prigionieri.
da L’anno che Bartolo decise di morire, Arkadia, 2019
Quella sera Giovanni, a un certo punto, aveva preso un momento da parte Bartolo e aveva affermato che secondo lui chi si distacca in anticipo è il più forte, come lo è chi mette il primo piede fuori e dà le spalle al cuore, che alla fine bisogna salvarsi, pensare a sé, ai propri obiettivi e, continuava, perciò è bene imparare subito che va avanti solo chi si impunta, chi non dà ascolto ai sentimenti più profondi, quelli che richiedono più cura: vive bene chi non dà importanza ai dettagli, alle piccole cose, chi se ne frega delle sfumature, e non ha un minuto per una telefonata, per una confidenza, perché mette avanti muri, scuse, doveri, impossibilità e compagnia bella. Bisogna accettarlo, quando ci si abitua a ragionare in questi termini, si vive in maniera differente e sai, diceva ancora, questa nuova vita mette te e il tuo tempo in un sacco e, una volta successo, chi lo riprende più? Finisce che lei stessa, a un certo punto, senza che tu te ne accorga davvero, separi minuziosamente l’utile dall’inutile, senza sapere cosa è e cosa non lo è. Lo diceva sì con la sua solita chiarezza poco convinta, ma non parlava certo a Bartolo, era se stesso che giustificava ripetendosi la solfa.
Dopo cena erano usciti sulla piccola veranda del locale ed erano rimasti a discutere mentre l’aria si era intiepidita e il cielo era un mantello immobile, senza nemmeno una stella. Rientrarono tardi a casa, erano le due passate, ma l’indomani era domenica e nessuno doveva lavorare o ripartire. Avevano ragionato, riso, discusso, riflettuto, ricucendo il presente a un passato celeste, quasi immaginario e poi lontano, lontanissimo, non solo in termini di anni trascorsi. Cos’era significato crescere per loro? Che cosa significa crescere per chiunque, pensava Bartolo tornando a casa. Se lo chiedeva mentre guidava con la radio accesa, si accendeva una sigaretta e poi un’altra ancora e continuava a pensare, dandosi incerte risposte. Prima si raccontavano che non era significato niente di speciale, che quel che era accaduto a loro non era diverso da quel che succede a milioni di persone nella medesima situazione e che il passaggio al mondo adulto era avvenuto con tutte le incrinature dei casi, ma subito dopo affermavano che invece aveva un enorme significato, perché quella crescita, quel cambiamento che li aveva attraversati come il rivolo che scanala le pietre, era stato solo un giro di boa che li aveva fatti camminare in cerchio per ritrovarsi al punto di partenza. A Bartolo, dopo quella sera, le cose apparvero come quando erano bambini. Forse si erano un po’ appannati i visi, come succede alle foto quando sono troppo esposte alla luce del sole, ma Vito, Renzo, Roberto e Giovanni erano le uniche persone di cui potesse fidarsi, ne era certo, gli unici che se li avesse chiamati a ogni ora del giorno e della notte, sarebbero certo corsi ad aiutarlo, esattamente come aveva fatto lui con loro. Lascia stare, diceva Bartolo a se stesso, che negli ultimi tempi erano tutti un po’ assenti, ognuno aveva i suoi problemi da risolvere ed era giusto che fosse così, tutti quanti avevano ombre da inseguire e non era per cattiveria o noncuranza che in alcuni momenti non c’erano stati come lui si sarebbe aspettato. Si volevano bene da decenni, non c’erano cerimonie da fare, si rassicurò ancora, nessuno riservava all’altro chissà quali sorprese, e intanto aveva posteggiato la macchina in garage ed era arrivato sulla porta di casa fumando l’ennesima sigaretta della serata. Non aveva senso non parlargli delle sue notti insonni, dei pensieri assurdi che lo tormentavano. Loro, i suoi amici, ragazzoni stanchi di essere adulti, con il cuore lontano dalle spalle, non aspettavano che un cenno, sì, quella sera lui lo aveva capito: erano lì con le braccia aperte in segno di conforto, ad aspettare la sua richiesta di aiuto, pronti ad ascoltarlo, sia nelle parole sia nei silenzi. A cos’era servita tutta quell’esitazione sciocca, immobile, falsamente eroica, si chiedeva Bartolo? Gli aveva giovato? Aveva forse risolto i suoi problemi, o era migliorato il suo umore? Mentre si metteva a letto, proponendosi con impegno di concentrarsi a prendere sonno e a non svegliarsi per fumare a ogni ora, i pensieri avevano fatto il giro del corpo e quando finalmente chiuse gli occhi, la paura sembrava quasi estinta.
Valentina Di Cesare è nata a Sulmona e cresciuta a Castel di Ieri, in provincia de L’Aquila, ha conseguito una Laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea e un Master in Filologia Moderna all’Università di Chieti. Si è specializzata in Didattica della Lingua Italiana a Stranieri all’Università per Stranieri di Siena. Vive a Milano, dove insegna Lettere nella Scuola Pubblica e Lingua italiana a studenti stranieri presso il Politecnico di Milano. È inoltre esaminatrice PLIDA per la Società Dante Alighieri. Ha pubblicato i romanzi Marta la sarta (Tabula Fati 2014) tradotto in lingua romena (Marta, croitoreasa, Aius, 2019) e in lingua tedesca (Marta, Verlag am Sipbach, 2020), L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) e il racconto lungo Le strane combinazioni che fa il tempo (Urban Apnea, 2018), recentemente tradotto in inglese. Ha fondato Strade dorate – Osservatorio di Letteratura e Cultura Italoamericana e della diaspora italiana.
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».