Culturificio
pubblicato 3 settimane fa in Di parola in parola

Tommaso Giartosio – mare

Tommaso Giartosio – mare

Lo scrittore Tommaso Giartosio ci parla di “mare”, una parola che per l’autore ha assunto una connotazione “terribile” in questi anni di “grandi naufragi” 


Userò questo spazio per fare il punto su una parola – mare – che mi sta molto a cuore, soprattutto ora che, lo confesso, sto chiudendo una silloge poetica a cui questa parola fa appunto da titolo.  

Il mare mi apparteneva fin da piccolissimo, cioè gli appartenevo. Trascorrevo buona parte delle vacanze a mollo, e spesso avevo l’illusione (una cosa da ragazzino, da giardiniere) che tutta quell’acqua fosse una forza buona che mi innaffiava: che non fosse estranea alla mia crescita. Nel mio primo libro, Doppio ritratto, ho provato a descrivere l’esperienza del tuffo: “La sospensione, la vertigine, lo scroscio risucchiato in un rintocco, la carezza granulosa del sale sul torso che ci s’inguaina, la lingua di corrente gelida lungo il fondale, la grazia segreta della giravolta, il blu cupo che diventa più largo e chiaro e celeste finché l’ultima scalciata non strappa il tetto d’acqua e ritrova ogni cosa com’era: il cielo, il sole freddo sciolto sulle onde, tutti i suoni del mare e della costa; la figura dell’amico sospeso a picco sullo specchio d’acqua, pronto a tuffarsi: – Dimmi come vado. – ” Tutte queste parole mi sembrano generate da mare, dal mare; se hanno una bellezza, è quella di Venere sulla conchiglia. 

C’è un’altra ragione autobiografica per cui mi è caro: la nostra era stata, fino a mio padre, una famiglia di gente di Marina. Nei portaritratti del salotto non c’erano i nonni ma gli incrociatori. Si visitavano porti militari, si soggiornava – anche per anni – presso le basi navali. Avevi la sensazione di non avere mai il terreno ben fermo sotto i piedi. Per questo la mia prima raccolta di versi, Come sarei felice (che ha per sottotitolo Storia con padre), è piena di immagini marine. 

Sul piano del linguaggio, mare è un bisillabo elementare, una nocciolina lessicale, uno sfrido. Umberto Saba ha scritto: “Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo.” Le parole più comuni sono proprio così, trite, ritrite, tritate: sono quelle che ti ritrovi dappertutto, granelli di terriccio, briciole di pane. Cose antiche e anche grandi (basti pensare a ciò che religioni e filosofie e ideologie hanno fatto della terra e del pane), ma al tempo stesso piccolissime – e anche per questo grandissime: perché in ogni minimo frammento si trova la cosa tutta intera, in ogni goccia d’acqua c’è il mare. E viceversa. Mi piace che la lettera emme derivi dal greco mi, e questa dal fenicio mem, e questa da un ideogramma egizio che indicava l’acqua.  

Basta aprire un dizionario per notare che queste parole semplici, povere, che in realtà sono le più ricche di significati: spesso trovi una o due colonne di usi metaforici, locuzioni, proverbi… Ne cito solo uno. Il mare è, prima di tutto, l’opposto della terra.  

Un opposto simmetrico? Direi di no. Parlando per metafora, se la terra è materia, il mare non è antimateria (formata da antiparticelle con la stessa massa delle particelle ma di segno opposto, raccolte in antimolecole, poi in antielementi…), bensì materia oscura, cioè quella massa buia che costituirebbe i nove decimi circa dell’universo.  

Ora, se la terra è vita per noi umani, il mare è morte. Ma non quella che racchiuderebbe un aldilà destinato a noi. (Le religioni collocano i regni ultraterreni sottoterra o in cielo, ignorando il mare, benché lo abbiamo accanto: o proprio per questo.) Il mare è la distesa monotona della morte – e al tempo stesso la sede profonda di una vita ricchissima e sensuale, che ci nutre, ma rimane del tutto altra. La sfida della poesia è calarsi in questa sfera, in questo ambiente alieno che fonda la verità dell’umano. In Come sarei felice, questo forse lo intuivo: il mare compare per l’ultima volta nel distico: “Non più d’isola in isola. / Di notte, di mare in mare.” 

Più tardi, quando ho scritto Autobiogrammatica, che è un’autobiografia dell’infanzia e della giovinezza, mi sono accorto che il mare vi appariva ancora come lo spazio del piacere – l’assoluto fusionale di quei tuffi lontani – ma era anche segnato da un’ombra: qualcosa di più oscuro della banale nostalgia per gli anni perduti. Raccontavo, per esempio, di mia madre che voleva farsi seppellire in mare, e chiedeva allegramente di “venire mangiata dai pesci”. Oppure c’erano episodi di bullismo, e per superarli chiedevo aiuto a dei pesci: “Beluga, cefalottera, aplisia, fatemi attraversare il mare. Narvalo, corifena, planaria, fatemi attraversare il mare.”  

Ho capito che il mare materia oscura mi richiamava; ma perché? Era intervenuto un elemento per me inatteso – e terribile. L’ho capito scrivendo, appunto, questa nuova raccolta di versi. Il fatto è che questi sono gli anni, ormai i decenni, dei grandi naufragi sulla nostra porta di casa. Una gelida soglia d’acqua. E non ci sono solo gli annegati, i dispersi. Anche chi non viene inghiottito naufraga, molto spesso, di città in città, di paese in paese, diversamente disperso, e nessuna rete informale o elettronica lo recupera. Questo mare ce lo siamo portati in casa, con le sue correnti e i suoi gorghi. Abbiamo inventato un nuovo modo di perdersi: diventare interscambiabili, come onde o conchiglie.  

Ho pensato al poeta americano George Oppen, che conosceva sia il genocidio – aveva partecipato alla liberazione di uno dei sottocampi di Dachau – sia la massificazione consumistica – nel ’68 aveva scritto il suo capolavoro, il poemetto Sull’essere numerosi, in cui si parla del “naufragio del singolare”. Se fosse vivo assisterebbe a una scomparsa di nuovo tipo, una dispersione che non possiede neppure la tragicità della morte fisica o morale. 

La poesia che propongo è tratta da un libro in prosa che racconta un viaggio in Eritrea, e dunque, inevitabilmente, anche le migrazioni verso i nostri paesi, spesso finite in tragedia. La si troverà anche in Il mare


Da Tutto quello che non abbiamo visto: un viaggio in Eritrea, Einaudi 2023 

Kameraden, ich bin der Letzte! 

Quanti saranno, non lo sa nessuno. 

Centinaia, migliaia almeno. Vedi 

cosa trovi nella rete. Ottomila- 

ottocentrotrenta. Dodicimila- 

cinquecentosettantadue.  

174517. 

Decine, centinaia di migliaia.  

Dare i numeri coi suffissi è facile. 

Il sole il mare vanno alla testa. Troppe aia;  

saranno aia di aia;  

aia di aia di aia. 

Saranno oni, saranno ardi, sarà tardi. 

Ma andando a ritroso,  

ancora all’aurora, quando nell’aia  

azzurra canticchiavano le cifre  

e a contare non erano i prodotti 

ma l’indice sul petto, 

ci sarà pure stato un momento 

che sono scivolati dagli ento  

agli anta; 

e poi balzati dagli anta agli enta;  

e subito capitombolati agli enti, 

ci sarà pure stato lo sgambetto  

da dicia7 a 6dici 

e le corse e le cadute di Ottavia e Settimino 

Sestilio e Quintino, 

in tutta quell’età senza morte 

ci sarà stato solo un Secondo, 

c’è stato un 

Primo. 


Gli ultimi libri di Tommaso Giartosio sono Come sarei felice. Storia con padre (Einaudi 2019, Premio Napoli Poesia), Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea (Einaudi 2023, Premio Alvaro-Bigiaretti), e  Autobiogrammatica  (Minimum Fax 2024, Premio Città dell’Autobiografia, finalista al Premio Strega). 


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».