Abbandono – Marisa Salabelle
ovvero di luoghi e persone dimenticati dagli uomini e da dio
La scrittrice Marisa Salabelle ci parla dell’“abbandono” di mondi e “creature storte, matte o disgraziate” che per “istinto vampiresco” fa suoi e pone al centro delle storie
Una parola che in qualche modo sintetizzi la mia opera, una parola chiave che rappresenti quello che in sostanza “dicono” i miei racconti e i romanzi che ho scritto… Dopo aver scartato “vita” (perché a me, quello che sta veramente a cuore è raccontare la vita, quella comune, di tutti i giorni, delle persone normali e anche un po’ sciagurate) e “donna” (perché i miei romanzi sono fatti al novanta per cento di donne, e questo può essere considerato un pregio, ma anche un difetto, secondo da quale punto di vista lo si considera), due parole che in qualche modo mi rappresentano ma che rischiano di sembrare troppo vaghe e ambiziose, ho scelto, sebbene non ricorra che rare volte all’interno dei miei testi, la parola “abbandono”.
Il mio romanzo d’esordio, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu, si apre con un corpo, quello della protagonista, abbandonato sul ciglio di una strada. E nel capitolo successivo, rievocando la nascita perigliosa dell’Efisia, mentre tutti i presenti si affannano a soccorrere la madre, ecco il corpicino della neonata abbandonato su una poltrona, “avvolto in uno straccio, come una cosa ormai inutile”. Madre che del resto, di lì a diciotto anni, abbandonerà marito e figlia, non potendone più della vita che le è toccato condurre fino a quel momento. Di persone abbandonate, e di persone che abbandonano, di luoghi abbandonati e in disarmo, la mia narrativa è piena. Non si è trattato di una scelta predeterminata, ma di qualcosa di cui mi sono resa conto a posteriori. Non mi interessa parlare di persone belle, felici e realizzate: preferisco quelle che non piacciono a nessuno, che nessuno si fila, ho una predilezione per i paesi di montagna in cui non vive più neanche un’anima, per i casolari diroccati e le contrade dimenticate da Dio; canto le donne brutte e sformate, le prostitute che parlano un italiano stentato, il venditore ambulante col suo camioncino, l’uomo che fa le pulizie nei giardini pubblici, il ragazzino lasciato solo nel giorno del suo compleanno. Molte delle mie storie si svolgono in località sperdute sull’Appennino, paesi che in passato hanno avuto una vita, un qualche piccolo splendore di breve durata e che, come certe dive del muto nostalgiche della gloria perduta, sopravvivono a sé stesse tra rimpianti e rovine.
Non so dire quali siano le ragioni di questa mia propensione per tutto ciò che è solo, abbandonato e malmesso: ho avuto un’infanzia serena, genitori affettuosi che si sono sempre presi cura di me. Saranno state certe letture: Oliver Twist e Senza famiglia, David Copperfield, Incompreso. Più tardi, nell’adolescenza, I Malavoglia e la Lettera a una professoressa. Quei libri lì mi hanno dato l’imprinting, ne sono certa. Nelle amicizie, nelle frequentazioni più o meno occasionali, nelle infinite aule in cui ho fatto lezione, il mio sguardo è sempre andato alle creature storte, matte e disgraziate. Non solo e non tanto per compassione, non sono poi così amorevole, quanto per un istinto vampiresco ad appropriarmi delle loro storie per poi raccontarle a modo mio.
Così, da certi discorsi orecchiati senza parere e rielaborati a lungo nella mia testa è nata Efisia, brutta e sgraziata, sopravvissuta per miracolo a un parto a rischio e poi morta ammazzata; Regina, che un giorno lasciò la sua bambina di pochi mesi alla sorella e scappò da un marito violento e da un paese ostile; Susanna, super obesa con l’ossessione del cibo e la passione per la scrittura, morta sola e abbandonata da tutti dopo essersi fatta il vuoto attorno a causa del suo carattere impossibile; Felix, Bella e Demy, i tre adolescenti abbandonati sul molo di Olbia da un padre sventato e costretti a farsi tutta la Sardegna a piedi per tornare a casa.
Una Sardegna polverosa e desolata, una Cagliari devastata dai bombardamenti, un Appennino in stato di abbandono. Pracchia, un tempo località di villeggiatura di un certo peso, la Perla dell’Appennino, con la stazioncina in disuso del vecchio trenino della montagna ridotta a un rudere pericolante, Porretta, stazione termale di antichi fasti, Torri, il villaggio fantasma, vivace e festoso solo nel mese di agosto e per il resto dell’anno deserto, presidiato solo da qualche vecchio catarroso e da qualche anziana con le calze di cotone color carne, e altre borgate ancor più minuscole.
Sono questi gli ambienti nei quali si svolgono le mie storie, e menomale che fanno anche un po’ ridere, altrimenti non so se ce la fareste, a leggerle.
Da La scrittrice obesa, Arkadia, 2022
Prologo
Quando finalmente i vigili del fuoco ebbero sfondato la porta, l’odore, che fino a quel momento era filtrato attraverso gli spiragli, si diffuse per tutto il pianerottolo. La signora Lotti, che abitava nell’appartamento di fianco, fece un passo indietro; i volontari della Misericordia entrarono con la barella; Lorella strinse il braccio di suor Maria Consolazione. Nell’appartamento, dove nessuna delle due era più venuta da mesi, regnava il caos. Il pavimento era talmente sporco e unto che le scarpe vi si attaccavano, come incollate. Oggetti di ogni tipo erano sparsi per terra, confezioni di cibo da asporto, briciole e avanzi, libri, quaderni, fogli scarabocchiati, scatole di medicinali, fazzolettini sporchi appallottolati, bicchieri di carta rovesciati; altri bicchieri, pieni a metà di un liquido marrone che poteva essere indifferentemente Coca Cola, tè o caffè, stavano in precario equilibrio su pile di riviste e cataloghi. Ogni superficie era colonizzata da quel misto di cose usuali, spazzatura e materia organica in decomposizione, compreso il divano, sul quale giaceva abbandonato e morto il corpo enorme di Susanna Rosso.
Marisa Salabelle è nata a Cagliari il 22 aprile 1955 e vive a Pistoia dal 1965. Laureata in Storia, ha insegnato per molti anni nella scuola italiana. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme). Nel giugno 2019 ha pubblicato L’ultimo dei Santi (Tarka). Nel 2020 è uscito il suo terzo romanzo, Gli ingranaggi dei ricordi (Arkadia); nel 2022 sono usciti Il ferro da calza (Tarka) e La scrittrice obesa (Arkadia).
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».