Culturificio
pubblicato 2 settimane fa in Di parola in parola

Fiume – Adrián N. Bravi

Fiume – Adrián N. Bravi

Lo scrittore Adrián N. Bravi ci parla di “fiume”, una parola cruciale nella sua vita e in tante storie che ha raccontato


In spagnolo, la lingua della mia infanzia, la parola río (ovvero fiume), dal latino rivus, con una caduta della v intervocalica, per cui diventa rius, significa piccolo corso d’acqua o ruscello. Sono tanti i vocaboli che provengono dalla parola río: chi abita sulla sponda opposta è un rivale, mentre il verbo derivare significa trarre l’acqua da un ruscello e riportarla su un canale. Un altro termine che la ricorda è riada, ossia piena o fiumana, ed è una parola che ho sentito spesso in bocca ai miei genitori, quando straripava il fiume Luján, accanto al quale abitavamo, in un quartiere di Buenos Aires chiamato San Fernando, e l’acqua entrava come un intruso dentro casa. Poi, tutto quell’immaginario fatto d’attesa, di fango, di rassegnazione, di piante acquatiche, di animali intrappolati tra le foglie, pian piano ha cominciato a sedimentarsi dentro me ed ecco che da quei ricordi, un po’ sfumati, lontani, e da tutto quel mondo fantastico che ne scaturiva, sono nati alcuni libri, tra cui Río Sauce, il primo che ho pubblicato in spagnolo, e L’inondazione, il sesto che ho pubblicato in italiano, dove si racconta la storia di un anziano, l’unico a rimanere in paese, nonostante tutti i suoi abitanti decidano di andarsene. L’ho immaginato con la sua barca a remi mentre attraversa le strade del paese; sotto l’acqua è rimasto intrappolato il passato e sopra la superficie il presente, e Morales, così si chiama il personaggio, sfiora quella superficie con la barca. A volte ho come l’impressione di non essere mai sceso dal tavolo sopra il quale i miei genitori mi facevano salire, quando il fiume cresceva e si impadroniva di tutta la casa. Nel frattempo, mia madre e mio padre si adoperavano, pregando qualche santo, per tenere a bada l’acqua, che, in genere durante la notte, arrivava silenziosa. Non mi stanco di immaginare i fiumi, in tutte le sue dimensioni. È una presenza che ho provato a declinare, a volte con più enfasi, altre, invece, come un sottofondo musicale, in molti testi che ho scritto. Verde Eldorado (Nutrimenti), per esempio, il penultimo libro che ho pubblicato, inizia raccontando di quando una galeotta e un brigantino (siamo all’inizio del XVI secolo) si addentrano a colpi di remi, con le vele smorte, su un affluente del fiume Paraná. Nessuno, nel gruppo di marinai condannato alla ricerca di frontiere e meraviglie, sa dove conducano quelle acque che si spostano sempre oltre il filo dell’orizzonte e a me interessava in particolare raccontare la storia di un ragazzino costretto a imbarcarsi verso le Indie che osserva per la prima volta le acque del fiume sconosciuto.   

Quando penso ai fiumi mi vengono in mente quattro libri che per me sono stati molto importanti. El Gualeguay (Beatriz Viterbo) di Juan L. Ortiz (1896-1978), un lungo poema di 2639 versi dove si racconta, attraverso la storia di un fiume, il Gualeguay, e di un luogo, Entre Ríos, una ricerca interiore che si trasforma in una comunione con tutto quel mondo fluviale in cui ha vissuto il poeta e io, ogni volta che lo leggo, ritrovo un paesaggio, una lingua e un immaginario in cui mi identifico. Il secondo libro è Il fiume senza sponde (La Nuova Frontiera) di Juan José Saer (1937-2005), che l’autore argentino, di origini siriano-libanesi, dedica al Río de la Plata, seguendo, per certi aspetti, le tracce di Danubio di Claudio Magris. Dunque, un saggio, che lo scrittore definisce trattato immaginario, in cui si percorre la storia del fiume più importante dell’Argentina e, allo stesso tempo, ci fa scoprire la storia di un intero paese. Inoltre, questo trattato immaginario, è uno di quei testi difficili da catalogare ed è un aspetto che mi affascina della scrittura di Saer. Il terzo, Sudeste (Exòrma) di Haroldo Conti (1925-1976), è un romanzo dove si narra la storia del Boga, un tagliatore di giunchi che conduce una vita sedentaria e nomade allo stesso tempo sul delta del Paraná (vicino a San Fernando, dove sono nato), navigando quelle acque piene di fango con la sua barca sgangherata. È stato il primo romanzo che ha scritto Haroldo Conti e forse l’unico in cui è riuscito, con la sua forza stilistica, a dare un respiro particolare al testo che corrisponde, allo stesso tempo, al ritmo del fiume. Infine, mi piace ricordare, difficile farne a meno quando parliamo di fiumi, i versi dell’Arte Poetica di Jorge Luis Borges quando recita: Guardare il fiume fatto di tempo e acqua / e ricordare che il tempo è un altro fiume, / sapere che ci perdiamo come il fiume / e che i visi passano come l’acqua. 

Sono tutti libri che hanno contribuito alla ricostruzione di certi ricordi d’infanzia e all’idea del fiume come qualcosa che ci resta dentro, anche quando si è lontani; hanno insomma alimentato in me la convinzione che se cresci accanto a un fiume, quel fiume ti trascinerà con sé per il resto della tua vita. E proverai a raccontarlo in mille modi, attribuendogli nomi e paesaggi diversi. Io, come dicevo, sento di essere rimasto sopra il tavolo sul quale mi facevano salire i miei genitori quando arrivava la riada. Non mi dispiace essere ancora lì.  E quando alzo lo sguardo e rivedo i miei genitori appena ventenni, che sognano chissà quale futuro, mi piace pensare a come raccontare la loro storia e la loro continua lotta contro l’acqua.  

  


Da L’inondazione, Nottetempo, 2015  

Era un fiume dalle curve sinuose, con acque alte e rassegnate. Serpeggiava la vallata inseguendo il profilo di due file d’alberi. In certi punti si restringeva e lì la corrente diventava inquieta e minacciosa, come se volesse uscire da sé. Da tempo immemorabile scendeva senza età verso il Gualeguay, che anticamente chiamavano Yagurí, ovvero il fiume del giaguaro o della tigre, quasi ad avvertire chi lo navigava della sua indole. Sino ad allora nessuno aveva pensato che si potesse gonfiare tanto da riempire l’intera zona. Nemmeno i vecchi ricordavano d’aver mai visto tanta acqua insieme in quella valle. Quando la corrente, una domenica d’ottobre, dopo una settimana di pioggia, aveva trascinato via con sé la capanna di tronchi di Murena, un trasportatore che trafficava sempre con il suo furgone, tutti avevano cominciato a discutere sul potere devastante del fiume.  

“Com’è successo?” avevano domandato i vicini mentre l’acqua si portava via i listelli di legno e l’attrezzatura che Murena teneva lì dentro (una capanna sull’argine, infittita di erba intorno, dove trovavano alloggio le vipere o qualche altro rettile pronto a defilarsi al minimo rumore).  

“Non c’è niente da fare,” aveva aggiunto Murena alzando le spalle, “non lo lega più nessuno questo fiume”. Aveva capito che la piena non si sarebbe fermata e che nel giro di qualche giorno avrebbe cancellato la valle.  

“È inutile lamentarsi,” aveva detto, “l’acqua non bada né al sentimento né alla ragione… Se deve gonfiare la terra, lo farà, senza avvertire”.  


  

Adrián N. Bravi è nato a Buenos Aires, vive in Italia dalla fine degli anni ’80 e fa il bibliotecario. Ha pubblicato il suo primo romanzo in lingua spagnola nel 1999 e dopo alcuni anni ha iniziato a scrivere in italiano. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: L’idioma di Casilda Moreira (Exòrma), Il levitatore (Quodlibet), Quattro novelle sui rattristamenti (Edizioni Volatili), Verde Eldorado (Nutrimenti) e Adelaida (Nutrimenti).  


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».