Adrian Paci – “Vedo Rosso”
Il film di Adrian Paci, Vedo Rosso, è nato per caso, quando l’artista ha ricevuto l’invito di partecipare a Mascarilla 19 – codes of domestic violence, inserito nel progetto In Between Art Film, fondato da un Beatrice Bulgari, che esplora ed espande i confini tra le arti visive, il cinema, la performance e i linguaggi dell’immagine in movimento. La collaborazione è nata a marzo e vede coinvolti diversi artisti, quali Ivan Argote, Silvia Giambrone, Eva Giolo, Basir Mahmood, MASBEDO, Elena Mazzi, Adrian Paci e Janis Rafa, affiancati a tre curatori, Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini e Paola Ugolini.
Il tema è la violenza di genere espressa attraverso il medium artistico visivo. I film si trovano sulla piattaforma online della rassegna Lo schermo dell’arte Film Festival, un progetto internazionale promosso dal Cinema La Compagnia (Firenze), dedicato a esplorare e promuovere le relazioni tra arte contemporanea e cinema attraverso presentazioni di film e installazioni, progetti di formazione, residenze per artisti internazionali, produzione e distribuzione di film d’artista.
Vedo Rosso è un progetto nato durante il lockdown, senza quindi gli strumenti o gli spazi adeguati per la realizzazione di un film. In una conversazione, Adrian Paci e il curatore Alessandro Rabottini ragionano sull’impossibilità fisica del linguaggio filmico, derivato dalle restrizioni a causa della pandemia, e il tema della violenza domestica che, in qualche modo, equivale a una forma di impossibilità di azione libera. Questo ha spinto l’artista a chiedersi in che modo avrebbe potuto rappresentare un tema così delicato e complesso con i pochi strumenti che aveva a disposizione.
Come raffigurare la violenza senza però renderla didascalica? Adrian Paci racconta che mentre giocava con il suo iPhone, il dito per sbaglio è finito a contatto con la fotocamera, producendo un colore vivido e intenso, un rosso acceso e vibrante. Il rosso assume diversi significati e rimandi nell’iconologia artistica; a mio avviso, nel film prende una connotazione sia violenta (rosso sangue) sia spirituale e meditativa, in quanto la voce narrante, interpretata dall’attrice Daria Deflorian, afferma che “vedere rosso” è l’effetto che appare quando chiudiamo gli occhi al sole, come se si stesse guardano dentro ad occhi chiusi. Quel rosso sarà l’unica immagine presente nel film, oltre ad alcuni frame in cui appare l’occhio di una donna, forse un rimando alla dimensione fisica assente; i suoi occhi che ci guardano sono i testimoni del racconto che non possiamo vedere a cui partecipiamo attraverso il suo sguardo.
Il film di Adrian Paci è quindi un pensiero, una sensazione, un ricordo che affiora in un momento di tranquillità; l’assenza di immagini e la voce narrante ci catapultano dentro la mente di una donna che ripensa ad alcuni momenti della sua vita, alle violenze subite, sia psicologiche che fisiche, ai suoi fallimenti e alle sue paure.
Il testo, scritto da Daria Deflorian, è strutturato in modo che il racconto sia verosimile, sembra appartenere davvero a una donna che ha subito violenza; semplice, discorsivo, sentito e drammatico ma che coinvolge veramente tutti grazie al tocco interpretativo dell’attrice senza però perdere di spontaneità.
Il senso di colpa che la donna prova nei confronti degli abusi che subisce è il tema trainante del film, quasi come se in fondo quelle botte o quei soprusi fossero responsabilità sua: «se faccio meglio questa cosa non succederà più» afferma la donna, «chiedere sempre scusa, scusa, scusa. È una forma di presunzione».
La funzione di quel dolore è di renderla viva perché dentro di lei tutto si è sgretolato. Si è completamente annullata, tanto che non riesce a focalizzare nitidamente come sono andate le cose, non riesce a parlare della questione centrale. Nelle parole della voce narrante è contenuto il fil rouge che lega Vedo Rosso all’attualità: per esempio, il continuo svilire il gesto violento a “una prova d’amore”, un atto di gelosia, uno sbaglio, sposta la responsabilità su chi lo subisce. Questo tipo di informazione è fuorviante, perché chi agisce in modo violento non ha scusanti. Ignorare le donne vittime di violenza contribuisce ad alimentare la narrazione della società patriarcale discriminante.
Mascarilla 19, che dà il titolo al progetto commissionato e prodotto da In Between Art Film, è la parola in codice che in Spagna, Pedro Sanchez ha istituito per le donne vittima di violenza, che permetteva loro di denunciare il reato nelle farmacie che aderivano al progetto fingendo di chiedere un prodotto. Il codice accoglie l’appello del Segretario Generale dell’ONU António Guterres, a seguito dell’aumento di richieste di aiuto arrivate da donne vittime di abusi nel corso delle prime settimane dell’epidemia, quando molte si sono ritrovate chiuse e isolate nelle mura domestiche.
Vedo Rosso, che si fa portavoce simbolico di un problema collettivo, si conclude con la protagonista che ricorda il rumore del trapano che ogni mattina sente nell’appartamento accanto. Questo le fa venire in mente la frase del dentista: «signora alzi la mano quando le faccio male, me lo dica e smetto subito». L’immagine è di per sé ordinaria ma, collegata al tema, suscita apprensione, paura, tristezza e desiderio di cura.
Ritornando a quel filo rosso che collega il film all’oggi, forse allora il problema non sta nella gestione dei luoghi di supporto o di sensibilizzazione, né nell’equivalenza dei ruoli maschili e femminili, il problema è la legittimazione della violenza, il modo con il quale si raccontano questi avvenimenti.
Anche alla luce dell’aumento di casi di femminicidio, il problema è che l’amore non uccide, la gelosia non giustifica la rabbia incontrollata. Vedo Rosso secondo me è tutto questo, delicato, diretto e illuminante. Adrian Paci, utilizzando solo un colore come simbolo della narrazione, gioca con l’assenza, cercando un modo diverso di rappresentare un problema sociale di questa portata, forse perché non c’è bisogno di palesarlo per raccontare la violenza domestica.
Femminicidio: «forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». La radice quindi della violenza non è solo nell’atto in sé. Dobbiamo riferirci all’intero sistema: il femminicidio è l’atto conclusivo di un processo sistematico di violenza fisica, psicologica, economica e verbale portata avanti dal continuo desidero di potere e controllo sul genere femminile. Non è quindi solo un’esperienza individuale, pur colpendo un individuo, ma è collettiva. Riconoscere quindi la violenza, in tutte le forme in cui si manifesta, rappresenta un primo passo per delegittimarla e bandirla.
Non mi avrebbe riconosciuto neanche mia madre […] Non gli era piaciuto come avevo apparecchiato il tavolo.
di Ljuba Ciaramella