Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Letteratura

Alcuni spunti su “Bestiario” di Julio Cortázar

Si parte da Lontana

Alcuni spunti su “Bestiario” di Julio Cortázar

A Paco, che amava i miei racconti.

A Paco, amico di infanzia dell’autore, è dedicato Bestiario, una raccolta arguta, condensata, in cui emergono animali reali, immaginari e uomini-animali, cioè quelle bestie che quando dormono fanno aria nella cassa toracica di ognuno di noi.

La realtà di Cortázar ha un che di estraniante, corredato di richiami all’inconscio. Cortázar scrive con una sensibilità quasi morbosa ma con la quiete di chi sa di non poter sapere fino in fondo. «Molti racconti di questa prima raccolta sono stati per me – e me sono reso conto in seguito – autoterapie di tipo psicanalitico». Dallo sguardo interiore e cerebrale, i suoi “occhi della mente” si posano sui quartieri di Buenos Aires, dove non manca l’elemento incongruo, apparentemente senza senso, un principio animalesco che si insinua a quattro zampe e va trotterellando per metafore tra le pagine della raccolta.

L’illustrazione in copertina è opera di Stefano Faravelli, che sembra aver preso a maestro De Chirico. Il richiamo alla classicità è inconfondibile: scanalata solo nella parte inferiore, una colonna si innalza verso il capitello corinzio su cui si mantiene in equilibrio un manichino tormentato da due scimmie; le due porgono, forse, una grande arachide a una giraffa, la quale, schernita ma con un fare indifferente, allunga la sua lunga lingua scura. Bellissimo e rifinito nei minimi particolari, il corpo della giraffa pare un arazzo e la chiave di un mistero. Intanto, una terza scimmia rovista indisturbata tra cesti di altra frutta fantoccia.

L’edizione risale al 2014, dalla collana ET Scrittori, ed è a cura di Ernesto Franco, con traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto. Proprio Ernesto Franco (poeta della Donna cometa) introduce al “velame spiegato”, a quelle pagine dei racconti che non potrebbero proseguire se non fossero spinte da quel fantastico che, suggerisce Franco, per Cortázar non è nient’altro che nostalgia. Sì, ma di che cosa? Del mito, di quei linguaggi totali nei quali l’uomo poteva sentirsi al sicuro.

È in questo spaesamento che si delineano quasi tutti i personaggi, molti dei quali sembrano non avere contorni e non riconoscersi nel territorio che abitano. Sono spatriati, come direbbe Mario Desiati: raminghi, incerti. «Scrivo per deriva, per dislocamento», appunta Cortázar, e l’opera che ne risulta è composta da “pietrificazioni di questo straniamento”. Franco è abilissimo nello svelare questa malinconia che si genera alla fonte: la malinconia del poeta camaleonte. Il poeta (l’uomo per Cortázar) è un camaleonte, si fa attraversare da tutti i colori del mondo e non è nulla perché non è più quello che è appena stato. Sta già per essere qualcun altro. Che tormento. Che nostalgia di sé.

Avevo circa quattro anni quando la mia famiglia poté tornare in Argentina; parlavo soprattutto il francese, cosa che mi ha lasciato un modo di pronunciare la r di cui non ho mai potuto liberarmi.

Julio nasce a Bruxelles; nei giorni di convalescenza per asma o pleuriti, da bambino segna parole sul muro (parole magiche) e a dodici anni scrive versi d’amore per una compagna di scuola, ispirati a Poe. Anche il jazz e la boxe per lui hanno una filosofia. Traduce in spagnolo le Memorie di Adriano di Yourcenar, ma anche la posta delle prostitute del porto che gli portano le lettere dei loro marinai. Scapolo instancabile, a trentatré anni è assolutamente certo che quasi tutte le cose che conserva inedite sono buone, alcune «addirittura molto buone». Per esempio, ci sono un paio di racconti di Bestiario che in spagnolo non erano ancora stati scritti.

In questo “Fantastico senza fantasmi”, un Fantastico Reale, per me un racconto che si annovera tra quelli “addirittura molto buoni” è Lontana (Lejana). Alina Reyes tiene un diario di cui Cortázar ci mostra solo alcune pagine, scritte tra un gennaio frammentato e un solo giorno di febbraio, il sette.

Tema materico è l’esperienza psichica del doppio: «Sì, c’è in me una specie di ossessione del doppio», tema che si intreccia a un’altra gemma cortázariana, gli anagrammi, gli stessi che creava da bambino quando col dito faceva scorrere parole sul muro della stanza aspettando che l’asma svanisse. Anche Alina, la protagonista del racconto, confida al suo diario che di notte gioca con le parole: così come Salvador Dalí diventa Avida Dollars (ad opera del poeta surrealista André Breton), Alina Reyes potrebbe essere anagrammato in “es la reyna y…”.

È bellissimo! Perché inconcludente, perché apre le porte alla fantasia. È orribile! Perché a porte aperte tutti vi si possono intrufolare. Anche quella figura della Lontana che Alina odia di notte e di giorno, quando suona il piano o, peggio ancora, quando è con Louis María, quando lo bacia, quando si lascia avvolgere la vita e il calore sale come a mezzogiorno. La odia anche in quel momento. Allora deve dire a Luis María che non si sente bene perché quella Lontana, lì, chissà dove, non è amata. E a volte ha freddo, soffre. Alina qui lo sente, o meglio, sa solamente che è così, che in un altrove la neve le sta entrando nelle scarpe rotte. Lei qui sopporta ma può aiutarla ben poco: «come fare bende per un soldato che non è stato ancora ferito», scrive il venti gennaio.

L’odio (o l’indifferenza) nella notte spesso si trasforma in tenerezza, improvvisa e necessaria, per quella non regina di chissà quale non regno che forse ha bisogno di conforto. È con lei che in sogno Alina si è data appuntamento al ponte. Là c’è freddo e c’è qualcuno che batte la Lontana; si chiama Rod e forse lei non lo ama nemmeno; forse Rod non è nemmeno un uomo ma è una madre furiosa, una solitudine: è qualcuno che la maltratta, che le maltratta, Alina e il suo doppio lontano, lei e la sua anima randagia. Sarà Louis María a portala su quel ponte. Questi infatti accetta la proposta di Alina senza sapere nulla, «come una pedina della dama che risolve la partita senza sospettarlo. Pedina Louis María, accanto alla sua regina». Così Alina, in procinto di sposarsi, si congeda da un lettore che ormai ha imparato a destreggiarsi nella metafisica dei suoi sentimenti.

Questa donna per metà (metà tra il sé e metà tra la realtà) ci saluta non prima di aver espresso una premonizione che suona come una speranza: «Sul ponte la troverò e ci guarderemo […] E sarà la vittoria della regina su quella aderenza maligna, su quell’usurpazione indebita e sorda. Si sottometterà se realmente sono io, entrerà a far parte della mia zona illuminata, più bella e più vera; basterà andarle vicino e appoggiarle una mano sulla spalla».

Come andrà a finire? Riuscirà Alina a salvarsi (e a salvarla) visto che ieri notte l’ha sentita soffrire di nuovo? A testimonianza del fatto che fantastico vuol dire anche reale, il narratore stesso è coinvolto dal principio nel doppio psichico e in tutto il resto, al punto che, dove la donna abbandona la penna, lui incomincia a parlare: «Alina Reyes de Aráoz e suo marito arrivarono a Budapest il 6 aprile».

Dal Danubio un vento basso, Alina è a metà del ponte; procede a fatica perché la neve strattona e le appiccica la gonna alle cosce. Al di là della desolazione del ponte, la vede nei suoi abiti vecchi e nei suoi capelli flosci. La parte oscura di lei le tende le mani. Alina fa lo stesso, così come si era immaginata, fino ad avvolgere tutta la magrezza dell’altra nel suo petto. «Ci si abbraccia per ritrovarsi interi», scrive Alda Merini, ed è ciò che le succede: si ritrova assoluta dentro quell’abbraccio, il fiume canta, sente la vittoria, intima e definitiva. La Lontana che ora è vicina piange dolcemente, o forse è lei, insomma qualcuno piange perché sente risvegliarsi il dolore della vicinanza.

Quando grida e apre gli occhi, vede che si erano già separate. Grida di freddo perché adesso la neve la sente, quella che entra nelle scarpe e la spinge a tornare in direzione della piazza. Alina non si volta indietro, non serve. Ora è intera e non ha più paura. Ha smesso di averne quando ha riconosciuto la carne, la sua, quella punita da un esilio autoinflitto o congenito (chissà), da una solitudine bestiale. Quel tipo di isolamento che si risolve solo nell’abbandono della propria nostalgia.

Gli altri racconti sono collocati, attraverso un sottile gioco di stile, in piccole stanze inospitali, come fossero gabbie che si affacciano ad un corridoio, nelle quali esseri animaleschi scelgono di dimenarsi oppure fingono di rassegnarsi. Il corridoio dobbiamo percorrerlo con cautela, sì, ma anche con lo spirito giusto, quello che non si può non avere quando ci si approssima verso un gioco ignoto, che poi altri non è che Il gioco del mondo (come annota ancora Cortázar sotto la sua Rayuela – quant’è bella questa parola!).

Così, procedendo piano lungo la costa-corridoio del libro del Bestiario, notiamo un Omnibus su cui i passeggeri sono come in uno zoo ambulante, sono animali dallo sguardo ora inespressivo, ora insinuante; qui gli indifesi (quelli con un biglietto da quindici) si siedono vicini per sopravvivere al branco e al disagio di non avere con sé un mazzo di fiori.

Subito dopo c’è chi ci rivela che la Cefalea è quando il «cranio comprime il cervello come un casco di acciaio – ben detto. Una cosa viva che si muove in circolo dentro la testa» e per quanto la farmacologia omeopatica possa attenuarne gli effetti funesti, per quanto i protagonisti della storia possano essere inquieti, fuori (ammesso che ci sia un fuori) è peggio, è un «luogo senza legislazione, abbandonato agli eventi della notte e dell’alba».

Il racconto Circe, invece, nasce da un’ossessione di Cortázar, che all’improvviso aveva incominciato ad avere paura di ingurgitare una mosca e, perciò, aveva preso ogni volta a guardare il boccone di cibo minuziosamente. «Quattro o cinque giorni più tardi mi sono sorpreso a mangiare dalla pentola […] senza la minima apprensione. Il racconto mi è servito come esorcismo» (sempre Cortázar).

Delia è una Circe che, come nel mito omerico, è un po’ strega e tutti gli animali sembrano obbedirle, dalle farfalle ai cani. Le sue manie delicate, la sua manipolazione chirurgica delle essenze, la sua vicinanza con le cose oscure non allontanano Mario. Lui non teme di essere trasformato in un animale (come nell’Odissea) o, peggio ancora, di finire come gli altri due fidanzati. Lei gli offre un boccone arcano, lui tiene gli occhi su di lei, lei la faccia da gesso; l’assaggio, il rifiuto, le mani alla gola. Ad ogni modo, non sarà nemmeno Mario a far cessare il pianto di Delia, «a proteggerla da quell’orrore che le saliva dal petto».

In Lettera a una signorina di Parigi un uomo ammette un disagio personale che non riesce più a tenere a bada, in una lettera indirizzata all’elegante padrona di casa che lo ha ospitato nella sua dimora. Anche il solo muovere di una tazzina è, per il mittente della confessione, un compromettere quel gioco silenzioso tra l’anima della donna e l’anima della sua casa ordinata. Ma non le scrive per raccontarle di quel sentimento d’oltraggio verso le sue mura (che prova persino quando riduce la luce della lampada), né per parlarle di sé stesso che chissà quante volte ha dovuto fare bagagli che non lo hanno portato da nessuna parte; piuttosto, le scrive per i coniglietti.

Fin quando erano dieci andava bene ma undici significa dodici e dodici sarà tredici. Non gli resta che liberarli dall’armadio e scusarsi per le costole dei libri rosicchiate. È che non poteva fare a meno di rigettarli direttamente dalla sua gola.

L’avvocato protagonista di Le porte del cielo è una maschera autobiografica. «È un’epoca della mia vita in cui mi sentivo personalmente uno spettatore di ciò che accadeva all’esterno, senza una vera partecipazione», scrive Cortázar. Il personaggio principale è un avvocato che incomincia a frequentare una coppia per ragioni lavorative e contemporaneamente «presenzia alla loro esistenza, della quale essi stessi non sapevano nulla». Vanno insieme a ballare ed è Celina a chiedergli di non allontanarsi dopo la conclusione della causa. «Come balla bene, Marcelo – come meravigliata che un avvocato sapesse ballare una machicha». Mentre si avvicinano, Marcelo riesce a guardarli vivere da lontano. Ma una cosa irreparabile succede a Celina e solo Mauro l’accusa e la sente, nel petto, verso il quale si punta il dito per indicare un punto di dolore o una medaglia.

Come collocato fuori, Marcelo resta un passo indietro anche di fronte all’angoscia del suo amico. Lo porta all’inferno, dove diluire nel caos e nel gin la sua lancinante solitudine. È qui che la riconoscono, proprio qui dove lui (Mauro) non l’ha mai portata, proprio qui che è simile ad un altro posto da dove Celina si è lasciata salvare da lui; qui tra il fumo che avvolge i simili della donna, animali disinibiti. Mauro, però, non ha creduto, non ha trovato le porte del cielo tra quel fumo e quella gente, ma Marcelo, per un attimo, l’ha raggiunto nel più profondo del sentire.

Bestiario è il racconto che chiude l’omonima raccolta. È un racconto dell’infanzia, parla di bambini che giocano con formiche e trifogli, di adulti che nascondono segreti tra i vetri delle sale ma anche di una coinquilina felina che va assolutamente evitata. Se la tigre è nello studio, i bambini giocano al parco delle amache. Se è in sala da pranzo, tutti aspettano a scendere. Se è nello studio del Nene, come ha indicato il fattore, Nene scrolla le spalle e seccato va a leggere il giornale in biblioteca. «Ma se era nel suo studio! Lei ha detto che era nel suo studio!». Lei ha capito male, lui ha ispezionato peggio. Fatto sta che non è facile badare a una tigre che si aggira per le stanze. E chi è che poi bada alle bestie in camicia e pantaloni?

Casa occupata, infine, nasce da un sogno, o meglio, da un incubo dell’autore.

Era in piena estate, mi sono svegliato zuppo di sudore […] poiché avevo una macchina per scrivere nella stanza, ho scritto subito il racconto […] Mi sono accorto che era necessario dar corpo al racconto con una situazione ambigua, incestuosa, quel fratello e quella sorella di cui si dice che vivono come una coppia semplice e silenziosa di fratelli, cose del genere.

Qualcuno ha incominciato ad occupare la parte in fondo della casa, ma fortunatamente la chiave della porta interna era inserita dalla loro parte, cosicché i fratelli hanno potuto serrarla col chiavistello. Una sera i rumori sordi arrivano fino al di qua della porta, alla cucina, al bagno o al corridoio. Anche l’altra parte è stata occupata, sono le undici di sera. Che fossero bestiacce?

«Lo ricorderò sempre con chiarezza perché fu semplice e senza circostanze inutili»: questa frase, proprio da Casa occupata, che introduce tutto il lavoro del Bestiario, suona come una dichiarazione di poetica. La raccolta si conclude, come in un cerchio a mano libera ed esperta, con un approfondimento proprio sull’arte del racconto. Autore anche del saggio Lezioni di letteratura (Einaudi, 2014), Cortázar è il “professore meno pedante del mondo”.

Nei suoi riguardi, chiaro e conciso, Pablo Neruda non si perde in chiacchiere: «Chi non legge Cortázar è spacciato. Non leggerlo è una malattia molto seria e invisibile, che col tempo può avere conseguenze terribili».

Ma ancora più stringato e limpido è Roberto Bolaño: «Cortázar es el mejor».

¿Es eso así?

È proprio così?

Non ci resta che verificarlo con i nostri “occhi della mente”.

di Annarita Genova