All’inizio della violenza femminile: “Ventre” di Giulia Della Cioppa
È andata così:
Assunzione impropria di farmaci – overdose – malfunzionamento del ras (sistema di attivazione reticolare) –alterazione del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa, irregolarità della respirazione e una profusa sudorazione – sincope e perdita di coscienza – trauma cranico (deve essere stato il maledetto tavolino di cristallo in taverna) – coma – stato vegetativo.
Margherita si è uccisa il giorno del suo compleanno. Si è uccisa ma non è morta e racconta di lei dal suo corpo, da quello che rimane quando corpo non si è più – un corpo che sente, quantomeno. È tenuta in vita da una macchina, non può muoversi, ma riesce a tenere gli occhi aperti, può osservare. Non le manca il suo corpo, né tantomeno quello degli altri, ma è inondata dalla nostalgia del sentire. Più di tutto, Margherita, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito sbarazzarsi della mente; invece, questa è lucida e racconta, è la voce narrante di Ventre, l’esordio letterario di Giulia Della Cioppa per Alter Ego Edizioni.
Margherita, come se eseguisse su sé stessa un taglio chirurgico e si aprisse sul tavolo operatorio, sviscera ciò che è stato e quello che è ora. Dice della rivoluzione lenta e inesorabile degli spazi, dei muri che sembrano caderle addosso, di lei inchiodata nella stessa posizione sotto di loro; del perimetro della stanza che coincide, inevitabilmente, con la linea del suo sguardo, conscio. Uno stato, questo, suggerito dalla copertina di Luca Verduchi, dove tra forme indefinite e sinuose si stagliano, perfettamente, due occhi su un mezzo volto. Si impone, dunque, la distinzione spietata tra ciò che nel corpo funziona ancora e ciò che, invece, non sente più anche se c’è, rimane lì. I polmoni, per esempio, che ancora la fanno respirare, ci sono, il naso per sentire gli odori non c’è più. La bocca vista da fuori è una bocca normale, probabilmente è riguardata da piccole variazioni di colore a seconda di quanto sangue passi di lì, ma una bocca per parlare, fumare, sentire il sapore non c’è più. Mi lava, mi guarda, mi cambia, mi muove il corpo; alla terza persona, verbi che rimandano a qualcun altro, a ciò che rimane al di fuori di sé. Il flusso di coscienza di Margherita, i suoi occhi vigili che lei cerca il più possibile di celare sono uno stacco netto e feroce con il resto del corpo, che infermieri e dottori spostano e maneggiano come i macellai fanno con i pezzi di carne.
La prosa di Della Cioppa è, in questo senso, a tratti essenziale e a tratti violenta, anche se mai smodata, violenta come lo è una scrittura che, per la natura dei suoi temi, deve saper toccare anche il perturbante. Non si dice mai niente di troppo, niente di tremendo; semplicemente, è una prosa che dice tutto, attingendo tanto dallo spazio fisso e asettico dell’ospedale, quanto dal linguaggio del ricordo, che al contrario è fervido per Margherita, lì dove è rimasto impigliato il suo unico filo di vita. Dentro ci sono piccole balene che cominciano a nuotare sui muri tra le luci e le tende, cervi che le camminano sulla mano, rami d’alberi sotto la pioggia.
Si vede Margherita retrocedere a un livello non ancora umano, per il mancato sentire e anche nel suo stesso nome; è stata chiamata come quei fiori di campo sottili e trascurabili, a cui si strappano i petali quasi per automatismo, che si calpestano come fossero niente. «I fiori non vedono», le dirà l’infermiera che si prende cura di lei, Bianca. Anche il suo è un nome denso di significati, è una metafora del puro, del buono. Per questo sarà ancora più delicata, ma comunque conturbante, la resa che verrà fatta della violenza che Bianca ripete sul corpo abbandonato di Margherita, che accade di notte e si rimargina il giorno dopo, lasciando solo l’ombra di un segno sulla pelle, al pari di un’incisione eseguita bene.
Sei un fiore. Rimane immobile, mi mette le dita sugli occhi, sulle palpebre, le solleva. Le margherite vanno recise. Faccio cenno di sì. I petali staccati. Uno per uno. Gli stami strappati. Sbatto gli occhi due volte. Tagliate alla radice. Fa un gesto rapido verso l’armadio. Il bisturi, lo scarta e cestina l’involucro. Solo loro sanno come è bello rinascere.
È la violenza di una donna su un’altra donna, ma è anche un simbolo dell’origine, con l’immagine del ventre che torna nelle scene con le donne, è un tentativo di comprendere la ferocia con cui veniamo al mondo. Corpi sanguinanti che vengono dati alla vita da un altro corpo in preda al dolore. È come se, anche per i gesti più crudeli, ci fosse una sorta di attrazione connaturale se è una donna a eseguirli, che li pone perfino al limite del sopportabile. Lo stacco è molto marcato nelle scene in cui il corpo di Margherita viene toccato dal primario o da un infermiere maschio, al posto di Bianca; quando sono loro sul suo corpo, la percezione che se ne ha è qualcosa di sporco, torbido in maniera indefinita. Nonostante, in fin dei conti, questi maschi non facciano nulla di sbagliato, il corpo di Margherita pare consumarsi sotto ai loro tocchi, subire.
La metafora del ventre viene declinata anche attraverso un altro rapporto femminile, quello prioritario, ancestrale: il rapporto con la madre. Appare chiaro che tutte le donne incontrate, tanti dei gesti compiuti – lo stesso suicidio mancato – sono stati dei tentativi per staccarsi e rinascere, stavolta da sola, dalla donna che l’ha partorita, la prima volta e metaforicamente tutte quelle in cui Margherita è stata da lei trattata come una proiezione, un tentativo di far meglio, uno specchio ingrato. Le visite della madre a Margherita rimandano, come altre volte nel romanzo, al pre-umano, all’ante-nascita, come se la figura materna parlasse al proprio ventre in attesa senza ricevere risposta dalla sua bambina che non c’è ancora, o forse non c’è più.