Claudio Musso
pubblicato 1 mese fa in Recensioni

‘’Sirene. Il mistero del canto’’ di Elisabetta Moro

lettera aperta tra le variazioni di un mito

‘’Sirene. Il mistero del canto’’ di Elisabetta Moro

«La tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena

Ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo»

Franco Battiato, Sentimiento nuevo, 1981

Care Sirene,

qualcuno oggi dice di avervi viste, qualcun altro nega la vostra esistenza. Eppure il vostro mito di essere ibridi, incantatrici e paradigmatiche accompagna il nostro mondo occidentale oramai da tremila anni ed è quello che ha avuto più successo rispetto ad altri. Con istinto infallibile avete incrociato le rotte dell’umanità nel mare delle sue domande abissali e incalzanti, poi siete sparite e infine siete tornate tra gli uomini quando il nostro presente vi ha chiamato in causa. 

La vostra cifra di significati fluttuanti vi ha reso portatrici di un messaggio aperto a molteplici interpretazioni non solo, come rifletteva Michel Foucault, per ciò che fate udire, ma anche per ciò che lasciate intuire nella lontananza delle vostre parole. Siete diventate così le protagoniste di molte esperienze della nostra letteratura perché avete sempre lasciato uno spazio bianco tra voi e noi, delle pagine che ogni epoca e cultura ha cercato di riempire per raccontarsi dal di dentro proprio attraverso il prisma della vostra essenza.

L’antropologa Elisabetta Moro vi ha dedicato un libro, anche se non è il primo che scrive a tema sirenico. In Sirene. Il mistero del canto (Marsilio 2023) l’autrice, dopo una rigogliosa e partecipe introduzione su di voi, ricca di rifrazioni e intuizioni, lascia spazio, come in un’antologia, a testi, riportati integralmente, in cui autori diversi, in qualche modo, si parlano tra di loro, rendendovi protagoniste del loro canto e declinando, di volta in volta, il vostro essere un «geroglifico che tiene insieme l’umano e l’animale in una endiadi di perturbante bellezza».

Le trame che vi offrono il ruolo di prime donne sull’antico palcoscenico del mito sono quelle di Omero e di Ovidio. Nel XII libro dell’Odissea incontrate Ulisse che, opportunamente istruito da Circe, è il primo navigante che, pure ascoltando il vostro canto, riesce a fuggire alla vostra seduzione, a quel seducere che, nell’etimologia latina, significa portare lontano dai propri doveri, dalla propria famiglia e, in fondo, da sé stessi. L’eroe di Troia non si fa sviare, non cade prigioniero dell’incanto e, oltrepassandovi, fonda il nostro Occidente, la cultura del lògos e della téchne (anche se, a ripensarci, noi umani ci siamo forse spinti troppo oltre). Sbigottite per l’accaduto e private della vostra individualità, vi siete gettate in mare in un sacrificio rituale e una di voi, Parthenope, portata dalle correnti del mare, finisce sulle coste campane e intorno alla sua figura si forma un nuovo collettivo.

Omero non dice espressamente che forma avete perché ai suoi tempi tutti sapevano che eravate donne-uccello. Dobbiamo a Le metamorfosi di Ovidio la scoperta dell’origine delle vostre sembianze. Si racconta infatti che giovani e belle facevate parte del corteo di Persefone che improvvisamente scompare alla vostra vista perché rapita dal dio degli inferi. Disperate, chiedete aiuto agli dèi perché vi diano ali per sorvolare terra e mare per ritrovare la vostra prediletta e venite accontentate. Che poi, nelle raffigurazioni successive e nel nostro immaginario collettivo, ci siete sempre apparse come donne-pesce è un mistero. Una spiegazione potrebbe essere data dalla commistione di miti nella quale al vostro si mescola quello di un’altra grande e potente Sirena ittimorfa che vive in Oriente, la Dea Syria, il cui culto si propaga in Grecia grazie ai mercanti siriani.

Se l’archeologia, ci suggerisce Moro, ha confermato la vostra centralità, al di là della vostra forma, nel repertorio simbolico dell’antichità, tuttavia i Padri della Chiesa e i commentatori della prima cristianità vi hanno, per così dire, scomunicato per il vostro spirito tentatore che avrebbe spinto la razionalità della mente a infrangersi sugli scogli della corporeità. 

Nel Medioevo siete infatti diventate emblema di lussuria e di inganno, mentre il vostro «glorioso Odisseo, grande vanto dei Danai» è passato addirittura per una sorta di un buon cristiano. Infine, non potendo farvi sparire, siete state relegate e imprigionate in quelle riserve di allegorie che sono i capitelli delle colonne delle chiese dai quali ci avete più volte sussurrato che con Ulisse e la vostra distorta ricezione il conto è ancora aperto. E ci sarà, non temete, chi prenderà le vostre parti nelle epoche successive.

Nel racconto Ondina (Undine, 1811), che si inserisce nell’alveo delle saghe germaniche, Friedrich de la Motte Fouqué segna il vostro cammino letterario in età romantica, dopo la vostra ricomparsa nel Rinascimento e il vostro nascondervi dietro le quinte nel secolo dei Lumi. Lo scrittore ammanta di inquietudine la vostra esperienza terrena, l’inquietudine di chi, creatura dell’acqua, vorrebbe fare parte del consorzio umano anche se mette in guardia quest’ultimo dal mondo diverso da cui proviene. La protagonista è una creatura bizzosa e affascinante, un’orfana accudita da due anziani pescatori, sulle sue labbra aleggia un lieve e accorato segreto che esprime in sospiri appena percettibili. Per ottenere l’anima immortale umana si mette l’anello al dito con un giovane cavaliere che viene attirato sul suo lontano lembo di terra. Tuttavia, essendo una donna composta da dolce e da aspro – chiaro qui il riferimento alchemico dell’autore a Paracelso – deve rispettare il proprio nomos e il lieto fine è rimandato ad altre narrazioni.

Il tema dell’anima ritorna ne La sirenetta (Den lille Havfrue, 1837) di Hans Andersen, che porta il lettore dalla vostra parte fino all’immedesimazione. Guardare cioè il nostro mondo con i vostri occhi, condividendo le pene e la spavalda ingenuità della protagonista, ultimogenita del potente dio del mare, ma anche l’aspirazione a diventare umana che, nel contesto puritano ottocentesco danese e, più in generale, del nord Europa, è negata. Il dramma di questa vostra sorella non è solo amoroso ma identitario; lei cambia sé stessa per conquistare il suo amore, davanti al suo principe diventa una muta trovatella che parla solo con gli occhi e si muove malferma su nuove gambe doloranti. Costei ha rinunciato alla sua splendida voce e alla sua metà animale per vivere tra gli uomini, ma questa metamorfosi sarà un’altra nuova sconfitta. Cosa che invece non capita a La sirenetta di Walt Disney che, nata nel clima libertario della California degli anni Novanta, viene trasformata dal regista Howard Ashman nella prima sirena risolta della vostra lunga storia. Per coronare il suo sogno d’amore, Ariel è disposta a tutto, da seduttrice diventa sedotta e da quel momento le sirene smettono di essere percepite come pericolose.

Nelle riflessioni sireniche di Moro Napoli ritorna spesso. Pensando a questa città e alla sua mitica fondatrice, Matilde Serao, con la sua fervida immaginazione mitopoietica, ne La città dell’amore, pubblicato nella raccolta Leggende napoletane del 1881, spiega il presente illuminandolo alla luce della sua matrice greca. La sua Parthenope manca di coda o di ali, non ha dunque il corpo di una sirena, ma ne ha il ruolo ed è con la sua voce incantevole, con il suo amore giovane e spensierato, che nutre Napoli, una città che brilla «ebbra di luce e folle di colori», impazzisce e si contorce nelle assolate giornate d’agosto in un immenso e metafisico amplesso di terra e di mare.

Ma nominare Parthenope significa riandare con la mente a quelle «Sirene che incantano ogni uomo che le sfiori da vicino», come scriveva Omero. Nella vostra contesa c’è un manipolo di filosofi e artisti che parteggia per voi e nutre disprezzo per l’altro. Tra questi ci sono Horkeheimer e Adorno che hanno visto nella vittoria sulle sirene del Re di Itaca la genesi della nostra civiltà e della sua ratio calcolante ma anche la sconfitta della poesia e il confinamento del mythos nelle nebbie aurorali della sua origine.

Della stessa opinione è Franz Kafka che scrive un brevissimo racconto, Il silenzio delle sirene (Das Schweigen der Sirenen, 1917) dove Ulisse ripone le sue uniche salvezze in «mezzucci» quando è risaputo che il vostro canto penetra dappertutto anche quando ci si impone di non ascoltarvi. Kafka immagina che, all’arrivo dell’eroe, ve ne stiate zitte mentre lui crede che cantiate. La vostra è una rivincita perché dimostrate che quell’uomo, testimonial della tracotanza, non è capace di ascoltare un silenzio perché la sola cosa che sente sono i tamburi del proprio orgoglio. Si illude di avere nuovamente vinto con il suo multiforme ingegno mentre voi di rimando sbadigliate annoiate – altro che piangere! – pensando che il famoso eroe non valga tutta questa pena.

Un’altra iscritta al partito delle sirene è la scrittrice e poetessa Ingeborg Bachmann. Il suo Ulisse si chiama Hans, come  il compositore Hans Henze,  con il quale ha condiviso un’intensa relazione amicale e sentimentale resa impervia dall’omosessualità di lui. Nel racconto Ondina se ne va (Undine geht, 1961) la furia vendicatrice della donna affila come una lama ogni singola parola quando, illusa di essere approdata su un’isola di reciprocità, scopre che Hans ha altre priorità. La scrittrice prima invoca voi sirene perché possiate vendicarvi contro chi le ha spezzato il cuore poi decide di andarsene. Dopo essere stata la frontaliera che si muove ripetutamente tra terra e acqua e che ogni volta viene tradita dagli uomini, da quegli «Hans» tipizzati che definisce «mostri», si lascia alle spalle il nostro mondo per tornare nell’acqua, il non-luogo dell’utopia.

E poi c’è James Joyce che in Ulisse (Ulysses, 1922) vi presenta come le ultime vibranti epicuree nel flusso di coscienza dell’Occidente, due bariste dell’Ormond Hotel di Dublino che ridono a crepapelle immaginando di essere sposate al «viscidonaso» Leopold Bloom. Le loro armi di seduzione sono tre: la musica che le contorna, la loro avvenenza e l’alcool, che fa dimenticare e scioglie i freni inibitori dei naviganti che approdano sulla loro ‘isola’. Tuttavia nelle loro mani compare anche una conchiglia che accostano alle orecchie degli ospiti illudendoli di sentire «lo sciabordar d’onde, intenso, un ruggito silente», mentre invece sentono il flusso del proprio sangue, il rigoglio della loro vita.

Accostando la conchiglia bianca all’orecchio la sirena svolge appieno la propria vera funzione: metterci in contatto con il nostro mare interiore, con le proprie passioni ed emozioni. Che cosa dicono le onde furiose? Dicono di noi. In Joyce voi sirene non comparite per portare fuori da noi ma per ricondurci al nostro vero porto, quello più intimo e, in fondo, più vero. Non serve più che ci chiamate in acqua perché il mare lo abbiamo dentro. Come non è necessario che siate necessariamente belle. Perché la vostra seduzione è nella realtà del vostro canto, in quello che dite e in come lo dite. Oramai da tremila anni e forse ancora per molto tempo. Perché, come ricordava Elias Canetti, torniamo a riassumerci sempre in un mito antico. E in quel mito ritroviamo voi.