Anita Orfini
pubblicato 4 anni fa in L'angolo russo

Amarcord la strada nelle notti di Kabirija

"Cabiria di Pietroburgo" di Marina Palej

Amarcord la strada nelle notti di Kabirija

Quando non aveva accanto uomini, o voci di uomini, o odore di uomini, se ne stava seduta, con le ginocchia divaricate, e fiaccamente si rosicchiava le unghie.

Corre, sorridendo, a passo di danza, l’orlo della gonna, come sempre, molto più su del livello normale, Mon’ka non cambia, ha in eterno quattordici anni.

Così viene presentata al lettore Rajmonda Arnol’dovna Rybnaja – per gli amici Mon’ka o Monečka – nella povest’ di Marina Palej Cabiria di Pietroburgo (Kabirija s Obvodnogo kanala, pubblicata sulla rivista «Novyj Mir» nel 1991 e tradotta per il Saggiatore nel 1996 da L. Montagnani).

Il richiamo al cinema di Fellini e alla sua musa è anticipato nel titolo ed esplicitato nella dedica con la quale si apre l’opera: «Federico Fellini e Giulietta Masina».

La prima volta che vediamo Monečka è nei ricordi della voce narrante, la cugina più giovane di dieci anni che su di lei trasferisce i sogni di avere una sorella con la quale confidarsi. Rajmonda sta vivendo l’estate dei suoi precoci quattordici anni: la notte scappa per andare a ballare e la mattina rincasa seduta sulla canna di una bicicletta accompagnata sempre da un ragazzo diverso. Cercare di trattenerla in casa si rivela una missione fallimentare anche solo in partenza: la ragazza trova sempre uno stratagemma per sfuggire all’occhio vigile dei genitori e per dileguarsi per qualche giorno. Al suo ritorno però trova ad aspettarla il padre che non vede l’ora di dare una lezione a quella «sgualdrina e parassita» che si è ritrovato come figlia:

Arnol’d Aronovič, eroe della campagna finlandese, senza fretta avvoltolava sulla mano senza dita la cinghia da soldato. I pantaloni gli cadevano, lui li oltrepassava. Con indosso solo le mutande, questo animale, ansimando, cominciava ad avvicinarsi alla figlia minorenne, che aveva già rovesciato le sedie e batteva i pugni contro la porta chiusa in precedenza. Piantando addosso a Mon’ka l’unico occhio, il ciclope-tarantola eseguiva la cattura senza fatica: la stessa Mon’ka se ne stava immobile in un angolo. Il genitore lavorava su di lei in silenzio, con piacere, emettendo di tanto in tanto voluttuose grida e repentini sbuffi d’aria.

Una volta sposata, la violenza del padre passa nelle mani del marito Kolja:

[…] abbondantemente coperta di lividi, spiegava a Gertruda Borisovna che era caduta, che aveva urtato contro un mobile, e anche che glieli avevano provocati sui mezzi di trasporto.

Le immagini presenti nel testo che dipingono gli aspetti più neri della squallida vita a Leningrado si possono ricondurre a quella che in russo viene chiamata černucha (nerume). In epoca sovietica questa designa qualsiasi immagine che rappresentasse i lati oscuri della realtà socialista; in epoca post-sovietica, invece, si riferisce alla prosa che aveva portato alla luce tutto quel sostrato sociale composto da quei soggetti considerati «ultimi» come prostitute e vagabondi. Una violenza quotidiana – fisica e psicologica – percepita da ciascun personaggio come normalizzata, come facente parte di uno dei tanti aspetti inevitabili della vita, come un elemento di cui costituisce le fondamenta è quella che sgorga da queste pagine insudiciate. La stessa lingua di Palej, che dedica sovente ampio spazio alle descrizioni dei corpi putrefatti dalla malattia, che affligge non solo la protagonista ma anche i suoi familiari, rispecchia quella ordinaria e brutale barbarie:

Davanti a me giaceva un corpo edematoso, cianotico, semidistrutto, con il meccanismo di circolazione di tutti i liquidi definitivamente guasto. Non si capiva come in esso potesse esserci ancora conservato il respiro. […] Il semicadavere illividiva, rantolava, ogni minuto sputava sangue e per il giorno seguente prometteva di diventare un cadavere.

Il cuore di Monečka, di questa Giulietta Masina dalla frangia scura, è innocentemente avido di amore. Le sue ingenue speranze la portano a darsi a chiunque abbia cromosomi eteromorfici con avventata e fanciullesca immaturità. Quello che chiede questo animaletto selvaggio e incauto è donare la propria candida lascivia perché è solo in questo modo che riesce a sentirsi viva:

[…] per ognuno si trovava un posto particolare, ognuno stava al posto d’onore, perché tutti i posti erano d’onore; con inesauribile disponibilità questo cuore vizioso accoglieva, alloggiava e riscaldava chiunque fosse anche solo minimamente dotato dei caratteri di appartenenza alla razza maschile, e, riconoscente in anticipo per questi caratteri vertiginosamente belli, pompava l’attivo sangue – per vene e venette, e là di nuovo lo richiamava nel petto – riscaldava, si scaldava, ardeva.

Proprio come la Cabiria felliniana, Rajmonda si illude ingenuamente che ogni uomo che incontra nel suo cammino sia quello giusto, salvo poi ritrovarsi inevitabilmente sola e costretta a ricominciare la sua ricerca da capo:

A questa festa, a dir la verità, Mon’ka aveva versato parecchie burrascose lacrime. Elle credeva devotamente a qualsiasi nuovo animatore-inventore di giochi, faceva tutta allegra la corsa dei sacchi, ma l’animatore scompariva, e lei ogni volta si ritrovava con la testa nel sacco.

Quello che stupisce però è la diligente tenacia con cui la donna continua imperterrita a portare avanti la sua vita. Sedurre gli uomini rappresenta per lei un bisogno atavico e le delusioni alle quali va ripetutamente incontro non fanno altro che rafforzare il suo spirito. Così come la Cabiria delle notti romane si rialza dopo ogni delusione, asciugando le lacrime impastate di trucco e agitando la sua borsetta cantando, così la nostra Cabiria à la russe ondeggia i suoi fianchi mietendo tenere vittime ancora e ancora:

Monečka era raggiante dietro il bancone, come un arcobaleno personificato. Introno a lei s’inturgidivano e maturavano i frutti della mandragola. Impazienti cupidi diventavano così ben attrezzati per l’amore, così impetuosamente irti di frecce amorose da assomigliare a porcospini con le ali. Mon’ka mesceva a destra e a sinistra. Ammiccava, ridacchiava e si muoveva a passo di danza.

Il fermento delle passioni, vissute con il più profondo ed esuberante ardore di cui è capace, coincide con la sua personale resistenza alle convenzioni e allo stigma dei sentimenti. Mon’ka non indossa la lettera scarlatta che le vogliono cucire addosso perché per lei il sesso non è peccato. Allo stesso modo dell’eponima eroina di Fellini, Monečka, nonostante una vita dagli altri giudicata dissoluta e profondamente vergognosa, conserva in sé un candore verginale, una purezza corporea che tanto stride con gli eventi della sua turbinosa vita:

Ma il corpo di Rajmonda si rivelò bianco, puro e, per quanto sia strano, pieno di pudibonde linee verginali, mentre le gambe presentavano da cima a fondo normali attrattive, ed erano visibilmente gonfie solo alle caviglie (il cuore le faceva brutti scherzi).

Il rapporto con la madre, Gertruda Borisovna, evidenzia l’abissale differenza fra le due: la figlia è piena di spirito e ricerca costantemente e incessantemente la vita; la madre invece teme profondamente la morte. Nonostante ciò è Mon’ka che continua a vivere sul canale Obvodnyj, sulle sue acque mortifere e putrescenti ma è proprio qui che più risplende la sua inesauribile voglia di vita ed è la madre, al contrario, che si trasferisce ogni volta in un appartamento sempre più bello e in zone sempre più eleganti di Leningrado in un estremo tentativo di fuggire la fine. Monečka odia sua madre, così come sua figlia, una ragazza più bella di lei, riflessiva e sobria, guarda Mon’ka con disgustata condiscendenza, provando per la donna una profonda vergogna. Un altro metodo che Gertruda Borisovna sperimenta per scacciare i pensieri relativi alla sua dipartita consiste nel trovare mogli a suo figlio Kornelij. Un bel giorno poi decide che Kolja, il marito di Rajmonda, non va improvvisamente più bene e si getta così alla ricerca di nuovi pretendenti: stanchi e appesantiti dirigenti che vedono in Mon’ka solo una fugace evasione dalle loro tediose vite coniugali e che in lei non sortiscono che un flebile entusiasmo. La sua nivea e immacolata pelle, contesa dai vari e momentanei ammiratori, continua però a essere oggetto di abuso da parte del marito:

l provetto artigiano Kolja Rybnyj continuava intanto a fregiare Mon’ka con una decorazione floreale di lividi, che formavano un giardino in perenne fioritura.

Il canale Obvodnyj – fatto costruire dallo zar Pietro il Grande per arginare la meravigliosa e impetuosa Neva – seguita a fare da sfondo alle vite dei personaggi, tornando costantemente a sorvegliare da lontano Rajmonda, che presso quelle sponde consuma la sua vitale e sventata esistenza, e avvolgendo i derelitti che affollano gli appartamenti che si affacciano sulle sue rive:

Mi precipitai all’ambulatorio, dal cielo pioveva un umore avvelenato, ovunque trasudavano macchie cadaveriche, l’Obvodnyj aveva la nausea, lungo le sue rive si susseguivano edifici di obitori, carceri, orfanotrofi, ospizi, decrepite costruzioni cimiteriali – e tutti come al solito si camuffavano da edifici per la vita, da fabbriche che avevano superato il piano quinquennale […].

Nonostante le malattie, il degrado, le violenze e le due valvole artificiali di fabbricazione americana impiantatele nel cuore, Mon’ka rivendica il diritto di sentirsi viva e continua imperterrita a correre dietro alla vita, con la gonna troppo corta e i suoi eterni quattordici anni:

Be’, Rajmonda, verrebbe da pensare che tu proprio non conosca usura! Tutto scorre, ma soltanto tu non cambi. L’orologino nel tuo petto pulsa ritmico e sonoro.