Anna Seghers – “I morti dell’Isola di Djal e altre leggende”
il conforto del mito e il valore dell’esperienza
La favola e la leggenda – come forse ogni forma di racconto – hanno talvolta la capacità di sollevare dalla complessità dell’esistenza, dalla sua crudeltà; possono confortare la memoria di un narratore, innalzarlo dal duro suolo della terra e renderlo leggero, come in mare. È proprio il mare il regno del primo racconto di Antje Seghers (pseudonimo usato da Netty Reiling, diventato poi Anna Seghers), pubblicato nel 1924 e riscoperto nella raccolta I morti dell’Isola di Djal e altre leggende che, a cavallo tra la vita e la morte, sul confine tra mito e realtà, rileva il volto di un’autrice quasi dimenticata.
Grazie a questi otto racconti, tradotti da Daria Biagi e pubblicati da L’Orma Editore lo scorso settembre, ritorna alla luce una delle autrici di spicco della letteratura tedesca. Tra le pioniere dell’Unione degli scrittori della RDT, narratrice ebrea e antifascista, Anna Seghers ha formato la coscienza di autrici come Christa Wolf e va collocata al fianco di scrittori dissidenti come Bertolt Brecht.
Seghers si allontana da ogni presa di posizione netta e aprioristica nella narrazione della realtà. Sostiene l’importanza dell’esperienza concreta come fondamento dell’opera d’arte e – come scrive Christa Wolf nel saggio del 1968 La ragione terrena – il suo è «un modo di pensare e di vedere dialettico, non dedotto da un processo creativo ideale, astratto, bensì da quello reale»; ma abbandona anche la rigida convinzione lukàcsiana sul realismo come specchio delle dinamiche sociali. Seghers concilia nella sua scrittura realtà e mito, esperienza e fantasia; si allea con gli emarginati, con i reietti che non si adattano alla società e tenta di colorare la crudeltà del suo tempo, non per alienarsi da esso, ma per nutrirne lo spirito.
I morti dell’isola di Djal – primo racconto che dà anche il titolo alla raccolta – ne è un esempio palese: in un’atmosfera suggestiva da racconti intorno al fuoco, in pochissime ironiche pagine i morti calpestano la stessa terra dei vivi, in una mescolanza di fantastico hoffmanniano e di critica al realismo.
L’eterogeneità che plasma il racconto è comune a tutta la raccolta: le più belle leggende del brigante Woynok convivono con quelle di Artemide e degli Argonauti, culti e usanze antiche e miti greci sono contrapposti alla tragedia, alla pesantezza di famiglie costrette alla povertà e alla malattia, la cui liberazione risiede soltanto nella morte; all’indifferenza e alla menzogna, al dolore della guerra e del totalitarismo nazista.
Grandi avventure degenerate in storie di uomini ordinari e i loro drammi: la verità è che dietro ogni narrazione – leggendaria o realtà – si riflette un contesto riconducibile alla storia del mondo. Ma anche alla storia di Anna Seghers. La sua, infatti, è la voce dell’esperienza: «Non scrive una sola frase che non abbia vissuto in prima persona», sosterrà Christa Wolf; ma è anche la voce della responsabilità: «Imperterrita, Anna Seghers lavora come può lavorare solamente chi ha la certezza che ci sarà sempre una generazione successiva a trarre profitto dall’opera e a trasmetterla a coloro che verranno».
Talvolta Seghers sembra quasi cambiare idea, amareggiata dalla consapevolezza che non ci sia alcun futuro, a causa dell’indicibile crudeltà degli uomini e delle loro guerre, come mostra l’incipit dell’ultimo racconto (quasi che dalla fantasiosa esaltazione iniziale si sia arrivati a una enorme tristezza):
Tutto fu vano. Le preghiere nelle chiese e nelle moschee, vane. Le congiure, le invocazioni a dei da tempo dimenticati e lasciati al loro destino: vane. E anche l’ultimo tentativo di resistere, armati fino ai denti: vano. […] Se non c’è più futuro, il passato è esistito invano. […] Anche quei giusti che da sempre credevano al bene e al male […] dovettero a quel punto accettare che gli uomini erano diventati feroci e crudeli […].
Tuttavia, non si tratta di rassegnazione. Sono la consapevolezza e il bisogno di scaraventare sulla pagina la nuda e cruda verità, nella stessa misura in cui l’autrice sogna e si rifugia nel mito. Perché l’uno dà significato all’altro, come la terra con il mare, la storia con la leggenda, la vita con la morte. La capacità di considerare tenerezza e crudeltà aspetti dell’animo umano, senza ridurle a una mera contrapposizione, è una delle qualità maggiori di questa autrice.
I morti dell’Isola di Djal e altre leggende svela, dunque, l’evoluzione e lo sviluppo della sua scrittura, in uno spaccato tra l’entusiasmo giovanile e la cupa consapevolezza dell’età adulta – i testi sono stati infatti pubblicati tra gli anni 1924 e 1965 – che si riflette nella scissione del volume in due parti.
È in ogni angolo di questo libro, tuttavia, che si nasconde una complessa profondità riguardo la scelta delle parole, dei contesti, delle narrazioni: spesso un termine cela immensi significati, un luogo la storia dei popoli.
Come una sorta di racconto-ponte, Posta nella terra promessa – penultima storia della raccolta – narra di un affettuoso carteggio tra un padre e un figlio, separati dalla volontà del padre ormai anziano di morire in Palestina, la terra natìa dalla quale era fuggito, e delle difficoltà che incontra nel sentirsi a casa. La fantasia si manifesta nella dolcezza delle lettere e nella graduale inverosimiglianza che investe la loro spedizione – superando anche la morte – alla quale si contrappone la nostalgia che il vecchio avverte nell’animo e che nasconde persino a sé stesso.
Da tutti i Paesi della Terra in cui era stato perseguitato, il popolo ebraico doveva fare ritorno in patria, in Palestina. […] Vivere a Parigi, o a L., in America o a Vienna, era comunque vivere in esilio, nell’esilio che Dio aveva decretato. […] [ma] che strana questa nostalgia per una terra miserabile, nella quale non si è vissuto altro che umiliazioni e sofferenza.
Grazie a un tenero espediente, senza mezzi termini, esilio e questione ebraica fanno immediatamente breccia in questa breve storia, spiccano come cicatrici sulla pelle di Anna Seghers e risplendono come meteoriti nel cielo della storia.
E in fin dei conti, anche se spesso sembra tutto così antitetico – storia individuale e collettiva, vita e morte, mare e terra, fantasia e realtà – esiste un mondo dove i confini cedono ed è tutto possibile: quello letterario. Perché la letteratura, come scrive Maurice Blanchot, «dopo aver negato le cose nella loro esistenza, le conserva nel loro essere: opera affinché le cose abbiano un senso, e la negazione, che è la morte al lavoro, è anche l’assunzione del senso».