“Arca di Noè” di Gianna Manzini
Gianna Manzini fu la prima scrittrice a vincere il premio Campiello con Ritratto in piedi – era il 1971 e il noto premio letterario aveva già otto edizioni alle spalle: nata in Toscana nel 1896 da madre borghese e padre anarchico, si annovera tra quella fila – interminabile, verrebbe da pensare – di autrici «escluse dal canone» e destinate a un oblio pluridecennale, che rivivono oggi, con i loro scritti, grazie a operazioni editoriali degne di menzione. Protagonista della scena italiana, in tal senso, è Rina edizioni, che ridà alle stampe la raccolta di racconti Arca di Noè di Gianna Manzini, un bestiario di eccezionale valore letterario.
Il libro nacque con il titolo Animali sacri e profani, una silloge di diciotto racconti pubblicata dall’editore Casini nel 1953; il corpus si sarebbe arricchito successivamente, uscendo nel 1960 per Mondadori, per arrivare a un totale di ventidue ritratti che costituiscono l’attuale conformazione dell’Arca di Noè.
«Viene il sospetto che, quasi sull’orlo della parola, essi [gli animali] si sottraggano alla nostra confidenza, dopo avercela accordata in attimi di sbalorditivo abbandono»: con questa frase in apertura al testo Manzini fa una dichiarazione d’intenti, ci mette al corrente in maniera piuttosto evidente della scelta autoriale, da non considerarsi di per sé originale dal momento che aveva non solo alti precedenti in letteratura ma anche all’interno della stessa produzione dell’autrice. Il ricorrere a quello che lei stessa chiamò l’antico Giardino è il risultato di un rapporto – quello con gli animali – che si era fatto per lei col tempo più «entusiasmante e più accorato». Ma neppure questa affermazione è in grado di descrivere il senso del libro, non assimilabile né a un tentativo di restituire valore alla categoria di questi esseri viventi rispetto all’uomo né a ricreare quel Giardino andato ormai perduto.
Con Arca di Noè Manzini inserisce e fonde elementi dell’immaginario a elementi simbolici, sviluppando testi originali, privi di intenti educativi – Pasolini stesso su questi racconti disse che «non hanno niente di moralistico in senso spicciolo, polemico e fiabesco». E in effetti delle reminiscenze favolistiche di Esopo, solo per citarne uno, non ripropone alcuna finalità “didattica”. Ciò che emerge, innanzitutto, è la prosa poetica, cui il contenuto si piega per consentirne il pieno sviluppo: la scrittura è meticolosa, ricca fino all’eccesso, ma senza arrivare al suo punto di saturazione.
Gli episodi, che alternano scene ripescate dall’infanzia o momenti del passato cristallizzati più genericamente nella memoria, traboccano di compassione verso il mondo ancestrale delle bestie. E gli animali, a loro volta, sono strumenti nelle mani dell’io narrante. Di razze diversissime gli uni dagli altri, sono immortalati come figure magnifiche e complete: hanno raggiunto la loro espressione massima, non sono soggetti ai cambiamenti del tempo perché la loro configurazione sembra essere già portata a compimento. Sono esseri autonomi, inscalfibili non perché esenti da errori o intoppi – la triste vicenda del cavallo nel racconto omonimo che apre la raccolta –, ma perché depositari di una verità antica e irripetibile. Anche dinanzi alla morte, è interessante notare come Manzini scelga due delle specie animali più care all’uomo, il cane e il cavallo: in entrambi i casi, di fronte al sopraggiungere del momento finale, le bestie non subiscono quel tragico epilogo ma trovano lo spazio per una memoria felice, che li nobilita ulteriormente, in un misto di positiva rassegnazione e pace tanto distante dalle umane reazioni.
Sotto questa luce gli animali sono da un lato esseri imperscrutabili da parte degli uomini, dall’altro sono dotati di un simbolismo rivelatore, di un’aura che a volte tendiamo ad attribuire senza particolari ragioni alle persone più vecchie di un paese. È il caso, ad esempio, del falco, apparentemente incurante degli occhi che lo osservano (e contemplano): «gli perdonavo dunque di non occuparsi punto di me, anzi di voltarsi, con le penne gonfie di sdegno dignitoso, ipocritamente distratto, allorché mi mettevo davanti a lui», racconta Lilla. Qui il falco è portatore di un significato altro, vale a dire la fine dell’innocenza della bambina che lo sorprende: il rapace in gabbia è, nel pieno delle sue facoltà, padrone della scena e degli occhi che su di lui si posano.
Nell’incedere, racconto dopo racconto, tra questa fauna multiforme, Manzini si fa sempre più letteraria: laddove nei primi scritti non è poco frequente cedere alla faciloneria di sovrapporre gli animali a figure di uomini e donne, proseguendo ci si rende presto conto che l’uomo ha perso tutta la sua importanza divenendo o misero spettatore o presente solo in virtù del contatto che ha stabilito con la bestia; d’altro canto l’animale, dalla larva al cappone, è l’unico e solo protagonista, anello di congiunzione tra uomo e Dio. Non a caso si incontrano, in alcuni testi presenti nella seconda parte della raccolta, immagini dalla bellezza indimenticabile, immortalate da uno sguardo a tratti nostalgico, come quella della larva richiamata dalla luce che attraversa oggetti e ambienti («Il calore della stanza l’aveva illuso che fosse primavera. Soltanto nella testa e nell’attaccatura delle ali era finito di nascere: e dunque forte d’un’impazienza arrabattata, che meravigliava con un corpo simile, opalino, molle, non ancora appropriato»).
Non solo: la differenza tra uomo e animale si fa tanto più evidente – viene ammessa da Manzini che narra – in racconti come Allo zoo di Roma.
Ma ogni animale è una forma e un significato splendidamente raggiunto. E io penso che i loro visi siano così ben modellati dal di dentro, a causa della parole cui hanno inutilmente anelato: tanti segreti mantenuti, tanti ragionamenti mai articolari. È nell’intensità della loro espressione che ognuno di noi trova uno speciale silenzio, uno speciale spazio.
La summa del grande spettacolo del mondo animale si manifesta, a buona ragione, con l’ultimo racconto, Il cavallo di San Paolo, in cui persino il santo deve piegarsi alla regalità della bestia e, disorientato, alzare «gli occhi e le braccia in segno di devota accoglienza e di religioso stupore».
Con Arca di Noè Gianna Manzini si presenta, ai lettori che fino a ieri non la conoscevano, maestra di stile. Di fatto, si spinse oltre i modelli e il canone letterario, evidenziando da un lato una padronanza senza eguali della materia, dall’altro uno stacco dalla generazione a lei precedente.