Jenny Bertoldo
pubblicato 5 anni fa in Recensioni

Bontà

di Walter Siti

Bontà

Come si può definire questo termine ai nostri giorni? Dove si nasconde oggi la bontà? Dentro di noi possiamo ancora farle spazio, spinti come siamo al competitivismo e alla paura?

Walter Siti nel suo ultimo romanzo (“un abnorme stralunato apologo”, per citare l’autore) interroga, indaga, questo lemma antico e immenso, calandolo nell’attualità.

Ugo vive a Milano dove dirige una casa editrice. Il mestiere che svolge non è frutto di impegno ed ambizione, bensì di una velleitaria aspirazione letteraria a cui ha preferito la comodità del ruolo di editor, che permette alla sua coscienza di mascherare ansie e rimorsi sentendosi comunque “a contatto” con la letteratura, ma senza provarne i rischi, attaccandosi a quel concetto della madre secondo cui il lavoro deve nobilitare, garantire dignità (che, apprensiva, lo prevenne sin da bambino che: “una corazza di dignità ti aiuterà nei momenti del disdoro, povera figlietta mia”). Un universo, quello letterario, di cui ormai con gelido distacco Ugo si fa critico, ironico, sprezzante commentatore: anche qui una mera, calcolata, vuota praticità pare trionfare, la nuova generazione per lui non può che vedere la letteratura come mezzo e non come fine, come strumento, “recuperare in ampiezza quello che si sta perdendo in profondità”.

Ricco grazie all’eredità materna, Ugo può permettersi lussi di ogni tipo, fino a comprarsi anche l’amore ed il piacere, un piacere che sa di perversione sfarzosa e consumismo elegante e raffinato. Architettando sempre nuove forme di godimento nel suo mondo privato e sfogandosi con sarcasmo tagliente e impietoso con i colleghi in ufficio, Ugo cerca continuamente una liberazione dalla frustrazione che lo divora. Gesti costretti dunque ad una ripetizione infinita, dato che questa totale liberazione non giunge mai. Tuttavia a far traboccare il vaso della sua disperazione non sarà lo spirito insoddisfatto, ma l’inevitabile, tremendo confronto con il corpo. Corpo che, all’età di Ugo (classe 1944),  imperiosamente  si impone sull’anima, rifiutandosi di renderle il piacere richiesto. Lo specchio diviene arma letale. Per un’esteta, un perfezionista, un consumista di sensazioni, siamo già ad uno stadio di “morte in vita”: non c’è dunque scelta, la conclusione giunge da sé. Nulla è più sopportabile, bisogna partire da questo mondo, il suicidio chiama con voce seducente, diviene tentazione, promette eterne languide dolcezze.  Ma la morte stessa richiede per Ugo un’estetica, un palcoscenico: “orgasmare nella bellezza” o “morire di perfezione”, come egli stesso definisce il proprio gesto radicale. Atto che Ugo vuol vivere dunque come estrema esperienza erotica, come liberazione, catarsi, orgasmo, attratto ormai più dalla morte che dalla vita. Ma la sua scelta lo porterà ad un finale  imprevisto e al ritorno verso qualcosa dimenticato (forse mai conosciuto) da molto tempo: una nuova “bontà”, una rinnovata  grazia.

Il romanzo si svolge essenzialmente nello scenario di una routine quotidiana immersa nell’ipocrisia, nei falsi sorrisi tra colleghi, nelle perversioni frustranti nascoste di giorno e sfogate la sera, nella sede della casa editrice fatta di vetro (un moderno open-space) ma occupata da uomini che non possono sperimentare la trasparenza, costretti sempre a difendersi da invidia e competizione. Aggredire per non essere aggrediti, comune logica post-moderna per reggersi in piedi senza poggiare se nessun valore… Riecheggia come un lamento lontano, antico e disperato quella parola, “bontà”.

Beata solitudo, sola beatitudo”: costretto ad abbandonare l’amato pensiero di Giordano Bruno, Ugo, compiendo un percorso a ritroso, messo a nudo nella sua fragilità, nella sua umanità,  dovrà fronteggiare l’infiltrarsi di questo valore sconosciuto, e degli Altri, nella propria vita.

Articolo a cura di Jenny Bertoldo

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