Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Di parola in parola

Bora – Corrado Premuda

il prodigioso elemento che spira e ispira nel cuore della Mitteleuropa

Bora – Corrado Premuda

Lo scrittore Corrado Premuda ci parla di bora, forza “disturbante o risolutiva” che nelle sue narrazioni contrassegna ogni svolta.


Non si vede, non si lascia guardare, non si può disegnare. Ma si sente: è freddo, è suono, qualcosa che spettina, atterra, confonde, infrange. Una parola breve che esce dalla bocca come un soffio profondo ma anche come uno schiaffo.

La bora è uno stato d’animo per me. Un’ispirazione, un fiato più sgarbato e improvviso di qualsiasi altro stimolo, più potente. Sapevo appena parlare quando ho inventato il primo racconto, o meglio ho fermato il titolo di una possibile storia futura: La bora mi mangia i capelli. Dalla mia infanzia triestina mio padre ha raccolto e custodito questa frase che, in qualche modo misterioso e inconsapevole, ha guidato il percorso che avrei intrapreso nella scrittura. Quel misto di spavento e di euforia, l’attesa per il successivo, maleducato colpo di vento che elettrizza l’aria e rende elettrico anche chi, magari chiuso in casa o riparato dalla sciarpa, subisce il portento della natura che fischia, in me produce sensazioni che inevitabilmente trasferisco nella narrazione. E se questo vento è catabatico, se cioè discende dall’alto delle alture della Siberia fino al mare Adriatico, le sensazioni che porta in dono a me raggiungono un punto molto intimo e misterioso giù nel fondo di ciò che ho dentro, si calano in profondità come in una solenne, simbolica immersione totale.

A Trieste ci sono giorni in cui i vetri delle finestre tremano con violenza e finiscono a volte per rompersi, dal cielo possono piovere pericolose tegole appuntite, le navi nel porto non riescono ad attraccare. Di notte si fatica a prendere sonno per quel sibilo costante e sgraziato che incrina il silenzio e scompiglia i pensieri. Di questo scrivo nel racconto Die Bora isst meine Haare (La bora mi mangia i capelli), breve testo commissionatomi per un’antologia austriaca e tradotto in tedesco da Mike Markart. Descrivo quel bambino che immaginava che il mostro ululante sarebbe comparso sul suo cammino appena fosse sceso in strada e gli avrebbe spettacolarmente rubato il berretto e magari anche la cartella, o lo avrebbe scaraventato giù dalle scale dopo avergli fatto lo sgambetto. E ogni volta non era così perché la bora è qualcosa che si sente e che c’è ma non si vede.

Nelle storie che scrivo il vento è spesso presente, a volte sottolinea la drammaticità di un momento, a volte inserisce la giusta nota di struggimento. Per i triestini la bora è il momento di fare punto e a capo, il momento per rimettere tutto in discussione: è quando sentiamo il bisogno di scompaginare il nostro ragionamento, quando ci abbandoniamo alla furia del cielo. Allora soffia la bora.

Nel libro La Barcolana dei bambini racconto di un viaggio in barca a vela da Napoli a Trieste: la protagonista naviga in compagnia di una tartaruga parlante fino alla mia città, nel punto più a nord del Mediterraneo, per partecipare alla famosa regata. Giunta a destinazione, la sorprende il fortissimo vento di cui ha sentito sempre parlare ma che non ha mai sperimentato dal vivo, e quella beffarda e incontrollata forza della natura rischia di compromettere la gara. Nel mio libro più recente, Trieste, uscito nella collana Le Guidine di Edizioni EL, parlo degli aspetti folcloristici di questo vento che rimane ancora oggi uno degli elementi più caratteristici della mia città al punto che è nato addirittura un Magazzino dei Venti, vero e proprio Museo della Bora pieno di memorabilia e di documenti sorprendenti.

Ma la faccenda può assumere connotati molto diversi: si può immaginare anche il contrario dello scenario classico, quello che chiunque si aspetta. È possibile scrivere, per assurdo, dell’assenza di questo turbolento fenomeno atmosferico che scende da nord-est, un’assenza che può rendere irriconoscibile una città. Il mio inedito Trieste senza bora è un trittico di storie legate dal soggetto, dall’ambientazione e da un insolito fenomeno. Un evento meteorologico anomalo come la totale e inspiegabile mancanza di bora a Trieste segna, per tre artisti, un momento cruciale, un appuntamento col destino. Cambia l’epoca, cambiano le circostanze ma tutti e tre i personaggi si trovano a fronteggiare un incontro importante con un familiare prossimo ma quasi sconosciuto. E il rapporto tra genitori e figli diventa spinoso e centrale anche per chi ha scelto di vivere sopra le righe. La cornice delle storie è Trieste in tre diversi momenti del Novecento: negli anni Novanta all’inizio del suo rilancio turistico, negli anni Ottanta con la cortina di ferro ancora dolorosamente presente, e infine mescolata e confusa con Parigi nel bel mezzo del Sessantotto. Una Trieste avvolta nella nebbia, sospesa nel tempo e nello spazio che ho cercato di raffigurare come le piazze metafisiche di de Chirico, geometria e luce, vuoto e trepidazione, ordine e ombre che si allungano minacciose. La prolungata attesa del ritorno della bora diventa un intervallo estenuante che enfatizza tutto ciò che di irrisolto si nasconde nell’anima dei personaggi. I tre artisti sono colti in un momento privato, cruciale, una pausa forzata imposta da un legame che può salvare la vita, o può accompagnarla alla conclusione, o può inquietare.

Disturbante o risolutiva, proiettata verso il cielo o rivolta verso un punto interno, la bora accompagna il momento di svolta nelle mie storie. È un canto sguaiato di libertà ed è una forza che si oppone alle normali attività, è un movimento conturbante e languido che si infila nelle vesti o anche l’orco spietato e impertinente che mangia con foga i capelli ai bambini.


Da Un pittore di nome Leonor, Editoriale Scienza, 2015

Quella mattina la bora soffiava con una forza inconsueta. Il vento faceva tremare i doppi vetri degli sburti, quelle strane finestre simili a gabbie di vetro che agli inizi del Novecento erano molto diffuse a Trieste. Il vento era gelido ma era una giornata limpida, splendeva il sole. Malvina aveva messo una coperta in più nella carrozzina di Leonor, si era avvolta intorno al collo una delle sue belle sciarpe colorate e aveva deciso di uscire a fare una passeggiata accompagnata dalla bambinaia. Attraversando la lunga via dell’Acquedotto, le due donne erano state costrette più volte ad aggrapparsi alla carrozzina di Leonor per non venir scaraventate a terra dalla bora. Succedeva a ogni angolo: nel punto in cui le facciate delle case si interrompevano e non fungevano più da riparo, i passanti venivano investiti dalle raffiche di vento che, simili a schiaffi, precipitavano rapide  colpendo tutto ciò che incontravano.

Dopo aver sbrigato le consuete commissioni e fatto le spese quotidiane, Malvina, la bambinaia e Leonor si diressero verso il mare. Malvina voleva passare da una sarta di cui aveva sentito parlare molto bene: dicevano fosse la più brava a Trieste a disegnare gli abiti per signora e lei aveva una gran voglia di rinnovare il suo guardaroba.

In prossimità delle rive imboccarono una strada che fiancheggiava il quartiere malfamato dove i marinai di passaggio in città erano soliti andare in cerca di divertimenti. Lì il vento soffiava di nuovo con violenza e in giro non c’era un’anima.


Corrado Premuda è scrittore e giornalista. Tra i suoi libri, Un pittore di nome Leonor (Editoriale Scienza, 2015), La Barcolana dei bambini (Nutrimenti, 2017), Il vaso di Pandora (Lisciani, 2019) e Trieste (Edizioni EL, 2020). Suoi racconti sono usciti in riviste e antologie, anche tradotti all’estero. È autore di testi teatrali, di testi radiofonici e di cataloghi d’arte. Scrive di cultura sul quotidiano Il Piccolo. Ha tradotto dal francese Murmur. Fiaba per bambini pelosi (Arcoiris, 2014) di Leonor Fini. Il suo blog è motivipersonali.home.blog.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».