C’è follia e follia
Il sostantivo “follia” definisce, nell’opinione comune, un individuo che sembra non comportarsi secondo le norme sociali prestabilite e cui, in genere, ciascuno fa riferimento. È fuor di dubbio che questa sia una definizione banalizzante e per molti aspetti limitante, eppure il senso comune fatica a riconoscerne una maggiormente dettagliata. La letteratura restringe il campo con l’attribuzione di un valore duplice: la follia traccia i contorni di un mondo costitutivamente diverso da quello dei cosiddetti sani, ma, al contempo, rivela un aspetto fondamentale dell’essenza di ogni essere umano: la percezione di un’alterità.
Quale che sia il modo di raggiungere una definizione, sia essa più o meno dettagliata, il risultato non muta: riconoscere questa realtà induce al confronto con l’altro e ad una conoscenza più profonda di sé. Nel corso dei secoli la declinazione del rapporto con l’altro da sé è cambiata a seconda della contingenza e ne ha, continuamente, subito l’influenza.
Durante il passato più remoto della storia del mondo, non si può ravvisare la presenza di una follia, per così dire, autonoma, bensì è necessario porla in relazione con forze divine, demoniache e, insomma, con la manifestazione del sacro.
È il caso della tragedia greca di epoca classica in cui Sofocle ed Euripide assumono gli dei a causa scatenante della follia umana ed essa si configura come vera e propria punizione divina. Si pensi alle tragedie Aiace e Baccanti (Sofocle 445 a.C- Euripide 406 a.C): nella prima, Atena induce l’eroe Aiace a scagliarsi contro il proprio esercito, che gli pare una mandria di armenti; nella seconda, è invece Dioniso a scagliarsi contro le donne di Tebe e, in seguito, contro Penteo. La forma che la follia assume è l’inganno, la sua conseguenza prima è il disonore, quella estrema, invece, la morte.
Riporto l’incipit dell’Aiace di Sofocle, in cui la dea Atena prende la parola ed esorta Ulisse, qui indicato col patronimico, ad infierire sul povero Aiace. Atena e Ulisse, ingannatore e ingannato, sono considerati, in realtà, entrambi maestri di menzogna e non c’è da stupirsi che il tentativo di Atena si riveli vano in seguito.
La traduzione è di Ettore Romagnoli:
Atena: Sempre io t’ho visto, figlio di Laerte,
che cerchi qualche occasione cogliere
contro i nemici. Ed alle tende innanzi
or ti veggo d’Aiace, ove, all’estremo
del campo, e presso al mare ei l’ha piantate,
che vai braccando già da un pezzo, e cerchi
l’orme che impresse egli ha testé, se dentro
sia, se non sia, Bene ti guida un fiuto,
qual di cagna spartana: or ora Aiace
entrato è dentro, e di sudor la fronte
gronda, e le man’ di sangue intrise. Or, d’uopo
non è che tu da questa porta spii,
ma che dica perché giungi con tanta
fretta: io so tutto, e ammaestrar ti posso.
Il peso di Atena in questo passo è sancito dall’ultima, lapidaria, affermazione. La divinità conosce, non l’uomo, e può “ammaestrare” Ulisse, inoltre si ricordi che sarà sempre Atena, qualche verso più tardi, a pronunciare la terribile riflessione circa la natura umana: “Un medesimo giorno, atterra e suscita tutte le cose mortali”.
Se la tragedia di Sofocle riconduce la follia all’inganno che vanno tessendo le divinità al cospetto di esseri umani quasi paralizzati, la letteratura Rinascimentale si appella al proprio classicismo, con piglio decisamente umanistico, e pare sovvertire la visione antica.
In effetti il Cinquecento assiste all’affermazione del concetto di follia come sostanziale possibilità della Ragione. Ed il caso più evidente è quello del paradossale Elogio alla pazzia di Erasmo da Rotterdam. Quest’opera è la vera e propria declinazione di “molte follie” che, tuttavia, possono ricondursi ad una sola così intesa: la liberazione dell’animo umano da tormenti e affanni. Talvolta la follia è leggerezza, talaltra è saggia e superiore alla prudenza (nel senso, va ricordato, di prudentia). Ne consegue un rapporto complesso dell’uomo con la propria interiorità, che, nell’immaginario collettivo, il folle scorge al fondo di uno specchio. Come se si riuscisse a vedere da lontano, come se Astolfo dall’alto della Luna indugiasse con lo sguardo sulla follia di Orlando impugnandone il senno (Orlando furioso XXXIV). Ed è questo il punto vivo, il nodo fondamentale della discussione e cioè il fatto che la follia provochi e porti in superficie lo scarto rispetto alla norma. In altre parole essa opera una serie di sovvertimenti che esigono un continuo scambio di ruoli fino a consentire di affermare, in sostanza, che l’irrazionale è razionale (cioè la follia è ragione) perché è vero l’inverso.
Erasmo – in Elogio della pazzia XXIX – afferma infatti:
Il saggio non sa far altro che rifugiarsi fra i classici, per apprenderne soltanto le sottigliezze verbali; l’altro [il pazzo] invece, buttandosi alla brava fra i rischi, raccoglie, o m’inganno? Frutti di prudenza.
Dunque il folle è saggio per il fatto che ha trasceso i limiti della conoscenza precostituita, il paradosso nel paradosso: un saggio che è consapevole della propria differenza costitutiva, del tutto umana, perché deriva dall’errore e non è demandata ad una dimensione trascendente. Eppure non è questo il caso stesso di Aiace che permeato dalla funesta pazzia risponde ad Atena, e quindi alla trascendenza, delle proprie azioni?