Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Interviste

Conversazione con Remo Rapino

su "Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio"

Conversazione con Remo Rapino

Un po’ cocciamatte e un po’ poeta, Bonfiglio Liborio. Il primo a detta di «tutto sto cazzone di paese» dove è nato, innominata città abruzzese affacciata sull’Adriatico. Ma pure a detta sua, che lo sa bene, «e mica da mò», di averci una coccia che è «na matassa sgarbugliata fuori di cervello». Il secondo, invece, a detta del suo padre letterario (quello biologico purtroppo Liborio non lo incontrerà mai) Remo Rapino. Che durante una delle prime presentazioni di Liborio dopo il lockdown, della poesia dice: se serve a qualcosa, «serve a campà».

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, pubblicato a ottobre 2019 da minimum fax, è davvero un libro pieno di poesia e pieno di vita. Dentro ci sono più di ottant’anni di Storia filtrati dalla “sguardatura intreccicata” del protagonista, dal suo punto di vista ingenuo e concreto sui grandi eventi del secolo (la Liberazione, il Dopoguerra, gli anni Sessanta delle lotte sindacali di Milano e la Bologna “stremista” prima e dopo la legge Basaglia, il Duemila), che Liborio attraversa quasi inconsapevolmente nel racconto in prima persona della sua esistenza, nel gioco di memoria e scrittura che gli serve ad allungare la vita ancora un poco.

La potenza di questo intenso romanzo d’esordio candidato al Premio Strega e in finale al Premio Campiello e al Premio Napoli è soprattutto nella lingua che l’autore riconosce al suo personaggio, un impasto terroso e musicale di dialetto e italiano in cui echeggiano moltissimi modelli, da Gadda al primo Gianni Celati delle Comiche, solo per citarne un paio, e che ne fa una figura memorabile. Un folle, ma un “folle esemplare”, vittima dei “segni neri” che si porta appresso fin dalla nascita quanto di una provincia (riconoscibile nel chietino, a Lanciano, ma secondo Rapino «nominarla era superfluo in quanto è un simbolo, e i simboli stanno bene ovunque») dove è difficile collocarsi, riconoscersi parte della comunità.

«Liborio è uno che guida, perché la follia ha una insopprimibile energia che rovescia il codice sociale dominante. Ma non è un eroe. È uno spazio bianco. È infelice, ma di sicuro non vuole essere felice come tutti gli altri. Come folle, è ricco di entusiasmo. E l’entusiasta è, etimologicamente, colui che è “pieno di Dio”».

Liborio è uno dei tanti personaggi ai margini del grande cortile della letteratura. E percorre questi margini, come in una delle immagini più belle del libro, con le tasche del cappottone piene di sassi per non farsi trascinare via dal vento.


M.D. Mi piacerebbe iniziare con una domanda banale, ovvero com’è nata l’idea del libro, come ha iniziato a scriverlo. Però considerando la natura del personaggio forse la domanda giusta è: come ha incontrato Bonfiglio Liborio? È stato lui a chiederle di riportare la sua storia oppure, come nella tecnica manzoniana, esisteva un manoscritto che ha trovato e deciso di trascrivere? Lo chiedo scherzando, ovviamente.

R.R. Bonfiglio Liborio in verità è nato tanti anni fa, perché era il personaggio di un poemetto che avevo scritto e che avevo dedicato a personaggi un po’ fuori margine, un po’ borderline. Era Liborio Muratore, questo personaggio che ho inventato. Poi è diventato un racconto. Un racconto che poi si è sviluppato nel tempo e non mi ricordo se fosse al Premio Teramo o appena dopo, c’era non mi ricordo chi che mi disse di svilupparlo, Liborio, che era un personaggio che andava sviluppato. Da lì ho cominciato a pensarci, e ho sviluppato la storia. Praticamente Bonfiglio Liborio è un personaggio inventato, ma i fatti sono veri, ho rovesciato tutto. Perché tutto ciò che accade a Bonfiglio Liborio è accaduto a tante altre persone. Io ho raccolto questi fatti, per conoscenza personale o per altro, e ho inventato un personaggio con delle storie reali. Liborio praticamente ha catalizzato tutti i “segni neri” – come li chiama lui – della sua vita: l’ho fatto nascere nell’anno in cui è nato mio padre e l’ho fatto morire nell’anno in cui è morto mio padre, quindi ho vissuto tutto il suo percorso. Quindi è stato quasi un incontro casuale. Poi lentamente Liborio è stato come un compagno di viaggio, me lo trovavo sempre affianco. E ho scelto questo linguaggio, questa parlata gergale, per renderlo ancora più autonomo da me, in qualche modo. Nel senso che lui scrive come parla. Ho inventato un personaggio che scrive la sua vita, ha più di ottant’anni, e naturalmente non essendo scolarizzato questo ha effetti anche comici e divertenti, lui usa un linguaggio che non è italiano e non è dialetto, ma è l’italiano parlato da chi non conosce l’italiano. Quindi lui parla così come scrive, e poi il flusso della sua parlata lo porta a raccontare la sua vita. Insomma, Liborio raccontando sé stesso racconta la vita di un secolo, la vita del secolo breve, potremmo chiamarlo così, con tutti gli avvenimenti, dal fascismo, la guerra, l’emigrazione, il boom economico, gli anni Sessanta, e poi l’epilogo drammatico del manicomio, del carcere e così via, fino al ritorno a casa come figura emarginata. È l’ultimo della fila, insomma.

M.D. Fra i molti echi che sono stati trovati finora nel romanzo, infatti, mi pare che uno riguardi direttamente la lingua di Liborio, in questa mescolanza fra italiano e dialetto che mi sembra richiamare, fra altri, anche il Vincenzo Rabito di Terra matta. In questo, e certo anche per la descrizione dei fatti importanti del secolo, Liborio è un personaggio-non-personaggio molto novecentesco. Ha un tipo di letteratura alle spalle del tutto novecentesca, pur essendo un personaggio inventato.

R.R. La differenza è che Rabito di Terra matta è un personaggio reale che scrive di sé e racconta la sua vita col suo linguaggio. Quindi ci sono delle assonanze, ma molto molto lontane. In qualche modo può essere pure assimilato, non so, a qualcosa di gaddiano, a qualcosa di Camilleri anche, in un altro senso, per le parole che usa, parole desunte dal dialetto. Il linguaggio di Liborio è un linguaggio quotidiano, gergale, fantasioso, con parole anche reinventate. Sono parole molto lontane nel tempo, parole di una lingua frentana medievale che ho scoperto insieme ad altri esperti. Per cui lo faccio scrivere così come parla, e di conseguenza lui si racconta, e raccontandosi racconta anche la vita degli altri. Lui vive una periferia esistenziale, diciamo così. Fa parte di quella storia della marginalità, secondo cui la Storia non è solo la storia dei grandi condottieri, dei papi, degli imperatori, ma anche la storia di un mugnaio.

M.D. Come nella microstoria di Carlo Ginzburg.

R.R. È la microstoria à la Ginzburg, Il formaggio e i vermi, per capirci. È quello, è così. Io ho insegnato Storia per tanti anni ed ero appassionato di questo modello storiografico che si oppone alla Storia événementielle, e che quindi è una Storia fatta di piccoli segnali. Che poi è una Storia marginale, ma una Storia fatta di spazi bianchi. Liborio è una voce che cammina nella Storia, ecco. È una voce fatta di ricordi, di memorie. Ed è un eroe senza lapide, non avrà mai un parco o una via dedicata a lui, però fa parte della Storia.

M.D. Per quanto però lui ci pensi spesso, alla sua lapide, nel corso del romanzo.

R.R. Il filo conduttore è questo, sono le lapidi. «Liborio girasole», «Liborio nuvola per strada», la lapide finale con cui c’è, poi, il rimpianto di non aver visto gli occhi di suo padre. Questo lo accompagna per tutta la vita, è l’aspetto lirico, diciamo, della sua anima.

M.D. Vorrei chiederle di più su tre elementi di cui mi ha parlato. Come mi ha detto, Liborio è un personaggio inventato sulla base di storie vere, che raccontano la vita di un secolo, e che per arrivare al suo linguaggio, a quel linguaggio, ha fatto delle ricerche. Questo mi interessa molto, perché mi sembra che sia stata maggiore la ricerca sulla lingua rispetto ai fatti storici.

R.R. Certo. Come dire, inventare storie è molto meno complicato che inventare una lingua. Le storie si inventano, si trovano, dai racconti, dalle testimonianze e così via. La lingua invece è stata un percorso più faticoso, perché volevo trovare un linguaggio che fosse coerente con il personaggio, e che quindi rappresentasse l’anima del personaggio. Liborio non poteva parlare un linguaggio forbito, un linguaggio sofisticato. Liborio poteva parlare solo quel linguaggio. Che è quello che si parla nelle strade della mia città, si parla nelle campagne della mia zona. È il linguaggio di chi non conoscendo l’italiano vuole sforzarsi di parlarlo, e ha questi effetti un po’ comici, un po’ devastanti quasi, con le sue sgrammaticature, i suoi errori sintattici, le ripetizioni. Perché in fondo Liborio è un folle, e il folle ripete spesso quello che dice perché vuole farsi riconoscere, vuole appartenersi, riconquistarsi. Vuole dirsi: anche io faccio parte della comunità. Noi spesso sottovalutiamo questo fatto: nella città, in tutte le città, abbiamo ingegneri, insegnanti, idraulici, bidelli, geometri, ma anche i matti fanno parte della comunità, il folle fa parte della comunità. C’è quel bellissimo verso di De André, quello che dice: «La luce del giorno si divide la piazza fra un villaggio che ride e lo scemo che passa». Io mi sono messo da quella parte della piazza, dalla parte dello scemo, per ascoltarlo e dargli voce, e lui poi dà voce ad altre voci.

M.D. Una dimensione molto politica, se si pensa a Foucault e alla ricerca sui folli e sulla marginalità dei folli nella comunità cittadina.

R.R. La Storia della follia è la Storia che entra in questo. Quelli che sono i vagabondi, che erano i vagabondi, i marginali, venivano rinchiusi nei manicomi, nei vecchi lebbrosari, perché non facevano parte di quel modello di mentalità borghese, di produttività. Infatti Liborio va in manicomio perché non accetta il tempo del capitalismo, in qualche modo. Nel libro ci sono molte cose, c’è l’alienazione, c’è la mercificazione del lavoro, c’è la follia, ci sono tanti elementi. Il retroterra culturale mio filosofico e storico entra nel romanzo, però viene trasfigurato attraverso i racconti e i linguaggi.

M.D. Un altro elemento che ha menzionato e che ho trovato molto interessante sono le sgrammaticature e le ripetizioni di Liborio, le sue ossessioni, come quella per gli occhi di suo padre o per sapere a cosa servono i pezzi che produce alla catena di montaggio della Ducati. Più che segnali della sua follia sembrano punti fermi, domande sensate che lo rendono quasi più centrato degli altri personaggi del libro.

R.R. Sì, le frasi reiterate, errori, «a me mi», tutte queste cose. Liborio ha una lingua sgrammaticata perché è sgrammaticato il suo rapporto con il mondo. Lui vive di stupore, di dolore e di meraviglia nello stesso tempo, e per questo si pone delle domande. Liborio è un po’ filosofo, in qualche modo. È il filosofo della meraviglia. E poi nel cortile della letteratura ce ne sono molti altri come lui, pensiamo a Don Chisciotte, pensiamo a Bouvard e Pécuchet, pensiamo a Macario di Juan Rulfo, pensiamo a Gimpel l’idiota di Singer, e a tanti altri folli. Un po’ come li chiama Cavazzoni, sono tutti “idioti esemplari” questi qua, che fanno e sono un simbolo di una mentalità, e fanno parte della comunità, dell’umanità, insomma.

M.D. Il terzo aspetto interessante rispetto alla lingua è il dialetto frentano, abruzzese. Mi chiedevo se nelle sue intenzioni ci fosse anche il tentativo di raccontare una terra di cui in fondo non si parla molto. Liborio ad esempio sembra un erede diretto dei «cafoni» di Silone in Fontamara.

R.R. Certo, sicuramente, perché la nostra terra purtroppo è una terra dimenticata. Se vogliamo fare una battuta: dimenticata anche dal servizio metereologico, perché danno sempre le temperature dell’Aquila e mai quelle della costa, per cui uno esce di casa col cappotto e poi fa trenta gradi. Sì, volevo anche recuperare la valenza di questa terra, che è ricchissima di umanità e di valori. Valori che sono sconfitti però sono ancora lì, in qualche modo. «L’Abruzzo forte e gentile» in fondo è un valore di solidarietà, di accoglienza, di accettazione della diversità, e nel caso di Liborio della neurodiversità. Questo è un libro di porti aperti, non di muri che si alzano. È un libro di accoglienza, un libro di amore, nel senso largo del termine.

M.D. Qualche giorno fa, discutendo del libro, ho sentito una persona un po’ più anziana di me che diceva: «Certo però che parlare adesso del garzone che va a bottega dal barbiere, del funaro o del lavoro in fabbrica, che senso può avere per le nuove generazioni, per i giovani?». Forse però, senza paternalismo o retorica, il senso è proprio raccontare e trasmettere quel mondo e quella memoria.

R.R. In queste memorie non c’è nostalgia, non c’è rimpianto. Non era un bel mondo, assolutamente. Però è un mondo che va ricordato per le persone che non ci sono più, questo sì. Ma non che fosse un bel mondo, specie per il lavoro. L’esperienza del funaro che fa Liborio è quella che fece mio padre, che mi ha raccontato. L’esperienza dell’ottobre ’43 sono i racconti di mio padre, c’è molto di personale in questo. Però non era un bel mondo quello del lavoro minorile, del tempo della fame, della miseria, dell’alienazione. C’è un rimpianto per le persone che non ci sono più, questo sì. Che ci hanno lasciati e che noi ricordiamo perché con loro ricordiamo anche i nostri anni. A volte, apprezziamo le cose del passato perché rimpiangiamo i nostri vent’anni, non perché era bello quel mondo. Come diceva Paul Nizan: «Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita». Ecco, questo è il senso del ricordo.

M.D. Un bell’elemento del libro sono gli eserghi di ogni capitolo. Si vede che le piacciono le citazioni, e l’effetto è come di entrare nella bottega dello scrittore, toccare ciò che lo ha ispirato. Mi sono chiesta in che rapporto siano gli eserghi con la scrittura, se siano arrivati dopo la stesura dei capitoli o siano stati concomitanti.

R.R. Io ho un vizio, chiamiamolo così, quando leggo, di sottolineare delle frasi che mi restano impresse. Come la citazione di Neil Gaiman: «Le persone hanno dei nomi. Questo perché non sanno chi sono». E quindi ogni volta quando finivo il capitolo cercavo sempre qualche cosa. Avevo deciso di mettere delle chiavi di lettura, quindi son venute da una raccolta incredibile di citazioni, di frasi che mi sono rimaste impresse. Anche di canzoni, per esempio. Quindi è nato come uno sfizio mio, insomma. L’editore a volte non era nemmeno tanto d’accordo, poi l’ho convinto. A me piaceva l’idea che chi avesse scritto Liborio avesse letto anche qualche bel libro.

M.D. Era un’altra curiosità, questa, come è stato il rapporto con minimum fax e con Fabio Stassi, e come è stato il vostro lavoro sul libro.

R.R. Il rapporto con Fabio Stassi è un rapporto molto personale, innanzitutto, è un mio grande amico conosciuto a Otranto diversi anni fa. Gli lasciai il manoscritto su Liborio, poi io ebbi un anno molto particolare, il 2017. Sono stato per un anno intero ricoverato in ospedale, ho fatto due trapianti e adesso ne sto uscendo. E Fabio Stassi mi ha detto: «Guarda, il libro si può lavorare, ci lavoriamo e lo pubblichiamo». Questo è stato nel 2016, e poi nel 2018 abbiamo cominciato a lavorare. E Fabio Stassi è un amico molto bravo, grande editor, grande scrittore. La minimum fax poi è una famiglia bellissima, conosco tutti ormai e mi hanno sempre accompagnato in tutti i viaggi che ho fatto, mi propongono di andare in giro, e a me piace tantissimo perché mi sembra di tornare a vivere un’altra volta. Poi Liborio è nato anche in ospedale, la notte, pensando, e dicevo: «Mo che faccio entrare, qualche personaggio, ci metto quell’altro, ci metto Ermes Venturi, ci metto…». Il libro è nato oralmente. La mattina prendevo qualche appunto, quindi me lo rileggevo a mente dal manoscritto, perché di notte non è che si dormisse tanto. Da un lockdown anticipato, è nato il libro.

M.D. È contento dell’attenzione che ha ricevuto il libro? Della candidatura allo Strega e al Campiello?

R.R. Molto, moltissimo. Lo Strega, il Campiello, anche il premio Napoli, a cui sono finalista, e per cui dovrei andare in Campania a novembre. Sono contento. Perché è come se uno ti bussasse alla porta e ti portasse un regalo che non ti aspetti e dicesse: «Questo è per lei, è una sorpresa», uno lo apre ed è un bel regalo. Così, l’ho vissuto così. Ho conosciuto tante persone, tanta gente. Sono stato a contatto con Guccini, la mia colonna sonora di una vita, che posso chiedere di più. È stata una bella sorpresa, sono tutti contenti di questo, e anch’io. Infatti poi a pagina 245 c’è anche una citazione del Premio Strega, se ti ricordi, alla fine, in quella festa immaginifica.

M.D. Una scena felliniana, quasi.

R.R. Già. E lì sul tavolo c’è la bottiglia dello Strega, vuota. Il libro è uscito prima delle candidature allo Strega. «Io lo Strega già l’ho vinto», dissi, citando. E va bene così.

Intervista di Maria D’Ugo