“Sangue di Giuda” di Graziano Gala – una recensione e qualche domanda all’autore
Vorrei chiudere ‘a lettera con tuo e il nome e il cognome, ma mi rendo conto ca nun me ricordo come mi chiamo. So di non essere Giuda, ma nun sacciu cchiù chi sono davvero, ca all’autri cristiani per bene uno il nome ce lo ripete ogni giorno dicendo CIAO PAOLO, CIAO FRANCESCO, CIAO GEREMIA. A me invece hanno deciso tutti di comune accordo pe’ Giuda, dopo ca sirma m’ha chiamato accussì.
Giuda – ma anche «ca so’ io, o ammenu cusì me chiamane ‘ntra ‘stu paise» – è un eroe dimenticato, un diseredato che non merita nulla agli occhi di chi lo guarda. È un disgraziato, uno che non vale niente, che non è amato neppure dalla propria famiglia. Un uomo con «nu finale già scrittu».
Conoscerlo dalla sua viva voce è però il vademecum per procedere nella lettura di Sangue di Giuda (minimum fax, 2021): un avvertimento che l’esordiente e promettente scrittore Graziano Gala lancia (e che il lettore coglie, pur non senza remore). Nelle strade di Merulana, paese emblema di un sud in cui non riesce difficile riconoscere le proprie strade, si aggirano loschi figuri ed è necessario che le presentazioni ufficiali vengano fatte subito: occorre capire chi appartiene a chi, come quando ci si trasferisce in un nuovo quartiere dove tutti si conoscono già e degli altri sanno anche le parentele più remote.
Quel nome, derivato da «sangue di Giuda», è un impropero, un insulto, un tentativo di relegare l’uomo a quello che si ritiene il suo tratto più saliente: il tentativo, per essere più precisi, di rinchiudere la persona in una categoria. «Tu sei come ti chiamo»: la definizione dell’essere umano passa innanzitutto dal modo in cui viene definito. D’altronde è il linguaggio a rendere reali cose e persone, a dar loro consistenza.
E la sua consistenza Giuda la prende da suo padre, in principio, da un urlo spietato che continua a echeggiare da quando, moltissimi anni prima che cominci la storia di Gala, quell’uomo era ancora un bambino. Del bambino il Giuda adulto conserva però ancora molto: una purezza che neppure le esperienze più nere possono macchiare, una bontà quasi disumana se confrontata all’agire della persona comune, un’ingenuità che potrebbe addirittura infastidire.
Nella sua casa, dove vive con Ammonio – gatto la cui priorità è sfogare i propri bisogni incurante dei luoghi e degli spazi –, continua a essere tormentato dalla rabbia del padre, che riecheggia dall’armadio alle pareti dell’appartamento fino al cuore di Giuda, e smette soltanto quando la TV è accesa.
Quando Giuda scopre che gli hanno rubato il televisore, i peggiori incubi si materializzano: nessun Pippo Baudo può più aiutarlo a sconfiggere il fantasma che lo costringe a girare di notte nel quartiere senza darsi pace. Con l’ingenuità che lo contraddistingue, per lui l’unica soluzione è avere un’altra TV da portare a casa e prendere alla lettera l’invito della Shop Assistant di un negozio di elettronica, ovvero di scegliere il modello che vuole.
Da questo apparentemente innocuo tentativo di riconciliarsi con la sua casa inospitale attraverso l’elettrodomestico inizierà un’incredibile sequela di fatti dai risvolti pericolosi e ingiusti. Un crescendo di problemi che comprometterà Giuda in tutti i modi in cui un uomo suo malgrado può essere compromesso. Politica, interessi privati e pubblici, malaffare, cani randagi e giovani ragazzi bisognosi entreranno con forza nella storia e tra le mura di una casa che fino a poco prima non aveva neppure la porta all’ingresso.
Per raccontare questa parabola, Gala ricorre a una lingua densa, multiforme ma precisa in ogni passaggio: un dialetto, un po’ campano un po’ pugliese, che non respinge ma, anzi, avvolge chi non mastica quelle espressioni gergali. A un’analisi più attenta l’operazione linguistica condotta con questo romanzo va oltre una riproduzione più o meno fedele della lingua bassa. Gala lavora per echi letterari, primo fra tutti quello gaddiano (che d’altronde omaggia a partire da quella Merulana), sperimentando un linguaggio nuovo, inventato ma assolutamente credibile, controllato in ogni sua parte. La resa del romanzo non cede: non nei dialoghi o nelle lettere indirizzate alla moglie che non intende rispondere, non negli sconclusionati monologhi e neppure nei resoconti dei suoi misfatti davanti al commissario.
In quanto inventato, quel linguaggio è l’ulteriore prova della condizione intima di Giuda e della sua storia: è una barriera da cui non si può uscire, che taglia ogni comunicazione con l’esterno, dando vita a un microcosmo narrativo inoppugnabile – sia nella sua accezione positiva di difesa dagli attacchi, sia in quella negativa, poiché la sua unicità lo rende invalicabile, non lascia speranza per una risoluzione.
Il corrispettivo di un ritmo sempre serrato cui l’autore non vuole rinunciare è una scrittura tanto più inclusiva quanto più il lato torbido della scena avanza, quanto più Giuda si barcamena tra disperazione e qualche scena non poco esilarante. Essere in grado di restituire ilarità e commozione in egual misura non è dote di cui tutti dispongono, e questo elemento è l’ulteriore dimostrazione dell’unicità di Sangue di Giuda.
Se la parola orale è stata anticamente l’unico strumento della comunicazione tra gli uomini, oggi la parola orale si fa tangibile, leggibile, conservandone però le caratteristiche. Il risultato è un romanzo completamente rinnovato nelle forme e negli intenti rispetto ai suoi precedenti, un libro che entra di diritto in quel filone di narrativa italiana contemporanea in cui la koinè mediterranea la fa da padrona senza mediazioni.
Dove imperversa l’eterna lotta tra Bene e Male, l’umana compassione verso il prossimo è ormai decaduta e la società è un terreno troppo compromesso perché ci sia spazio per la salvezza. Ma se non esiste più salvezza, Giuda diventa l’eccezionale emblema letterario di chi non vince: la sua figura si staglia su decine di protagonisti che si sono succeduti tra le pagine dei romanzi e che, pur costruiti alla perfezione, non hanno le caratteristiche che vi ha impresso Gala: un uomo-bambino, un eroe-antieroe, un protagonista-comparsa.
Giovanna Nappi: Nel tuo romanzo l’aspetto linguistico è preminente. Il dialetto è fondamentale, rappresenta una sorta di chiave interpretativa della storia: a cosa devi queste scelte stilistiche? Cosa ti ha guidato nella costruzione di una lingua inventata?
Graziano Gala: Lo devo – tanto – a chi mi ha cresciuto. A una mamma con la quinta elementare che al secondo congiuntivo si cappottava, a un signore di Salerno che si è prestato papà e mi ha insegnato (e segnato) tanto e poi tanto ancora, ad un ragazzo lucano che mi ha fatto capire nel periodo universitario che l’italiano è per forestieri e il dialetto per familiari. Anche quando sono arrivati complimenti grossi io non sono riuscito a dire – sì, sono io che gestisco il gioco, è la mia testa. Ho pensato sempre che fossero tutti loro e tanti altri e che io li ospitassi e portassi sempre con me per restare il meno solo possibile. Giuda è venuto fuori sotto dettatura, con una vocina che parlava e parlava e chiedeva di essere ascoltata nel modo giusto, alle giuste sintonie, come le radioline degli anni novanta. Devo ringraziare sempre, sempre e per sempre, minimum fax, perché se uno sente delle voci può essere pure principio di schizofrenia ed invece era romanzo e loro ci hanno creduto come si fa con le promesse dei bambini, ché i bambini bugie non ne possono dire mai.
GN: Quali sono gli influssi che hanno inciso maggiormente nel tuo percorso di scrittura? Ci sono autori che per questo libro ti hanno ispirato più di altri?
GG: Io ci tengo tantissimo e subito a dire una cosa: io scuola di scrittura non ne tengo, non me le sarei potute permettere mai, neppure in sette vite altre. Una però la faccio quotidianamente: leggo, e a volte leggo libri che mi fanno impazzire e che mi fanno venire voglia di chiamare l’autore/rice per dirgli e dirle quanto prezioso/a sia stato/a per me, come diceva Salinger. Io la pioggia l’ho imparata con Arpino, con Morandini ho capito che i matti potevano essere matti e bisognava volerli pure così, senza cercare di cambiarli. Celestini mi ha insegnato ad accettare la paura del buio e a confessarla senza vergogna, Tesson a pensare che con la solitudine si può anche non saltare in area. Giovagnoli mi ha insegnato la gola rotta, la Gualtieri le parole leggere leggere che magari possono essere appoggiate sulle ferite senza bruciare. Pierro mi ha insegnato l’importanza del dialetto, Argentina che se tuo padre è cattivo, cattivo resta anche al cimitero. Stassi mi ha insegnato che i fantasmi vanno addomesticati, Morganti la punteggiatura. E poi Remo, mamma mia, che Liborio non sapeva di Giuda e Giuda manco di Liborio e da quando si sono trovati insieme una sera a Genova sono andati per sempre abbracciati. Io imparo tanto, sono come i bambini: ho sempre tanta voglia e sempre mi tuffo con l’entusiasmo e con l’ingenuità. Vorrei essere più strutturato, come alcuni, tutti precisi e tutti rifiniti, ma poi finisce che divento qualcos’altro e a me piace essere così, sincero e difettoso. Altrimenti non ci riesco.
GN: Giuda è un ultimo, un dimenticato da Dio, ma è anche un personaggio letterario cui hai deciso di attribuire senza abbellimenti un ruolo da protagonista: chi è per te questo uomo/bambino? Cosa rappresenta veder pubblicata una storia come questa?
GG: È la vita mia, senza troppi giri di parole. A Pomigliano durante un festival ne parlavo e mi veniva quasi da piangere. Alla fine del libro gli ho scritto: A Giuda – io non ti scorderò mai, tu per come puoi, non dimenticarmi. Giuda è uno che ormai la gente pensa sia vero, e mi scrivono – come sta Giuda, che dice Giuda. E parlano come lui. Io ci ho passato tre anni insieme, ad ascoltare tutto, ogni singola parola, e poi a mediare sillaba per sillaba per cercare di essere degno di raccontare la sua storia. E lui, di me, non si è scordato davvero: il libro è andato in ristampa, a breve si va in Germania se non crolla l’apparato sanitario, a fine del duemilaventidue uscirà un contributo su Giuda negli Stati Uniti e altre cose ancora. Alla ‘Mmerica guagnù, alla ‘Mmerica. Io vendevo la verdura al mercato, non tenevo padre e la mamma era costretta a vergognarsi quando usciva di casa. Mo’ mia mamma di casa esce a testa alta: abbiamo riscattato tutto, quasi tutto, con duecento pagine e con tutto il sangue che c’è dietro. Io sempre povero e disgraziato resto, ma vuoi mettere ‘sta cosa nuova di potersi guardare allo specchio? Vuoi mettere la mamma che ride? Vuoi mettere l’affetto de tutti ‘sti cristiani, ca ci hannu vulutu bene ‘a Giudariellu? Ci possono riuscire pure i poveri, ci possono riuscire: mi metterei agli angoli delle strade a gridarlo. Forse arrivano sudati, stanchi e sfatti: che bella però, ‘sta fatica.