Che cos’è la linguistica
O del perché i linguisti non sanno tradurre e parlare ogni lingua
L’uomo è un “animale politico per natura”, sosteneva Aristotele nella Politica, in quanto capace di instaurare rapporti di amicizia e desideroso di mettere in comune conoscenze, capacità e arti. A questo concorre anche lo specifico modo di comunicare che l’uomo ha sviluppato: un sistema di segni che ha un certo funzionamento e dà adito ad un comportamento, cosiddetto linguistico, che si realizza diversamente per ogni lingua. Mentre il linguaggio è una facoltà posseduta in potenza da ciascun essere umano e permette l’acquisizione di una lingua, quest’ultima si configura come la specifica manifestazione di un linguaggio. In altre parole: il linguaggio è uno, quello dell’essere umano, le lingue sono molte, perché poste in relazione ad aspetti culturali conferiscono loro pari importanza, per via della possibilità di esprimere un concetto in modo pertinente al registro e al contesto. Inoltre il linguaggio è sostanzialmente “innato”, o universale, e vi è un certo lasso di tempo nel quale un essere umano può e deve imparare a gestirlo o, quantomeno, ad accogliere e registrare gli stimoli ad esso collegati. Senza linguaggio non è infatti possibile la comunicazione.
Veniamo ora al vivo del problema. Molto spesso, quando asserisco di essere una studentessa di “linguistica”, mi si richiede di tradurre una serie di parole in altre lingue, che il mio interlocutore suppone, erroneamente, io sappia. Sfatiamo un mito: la linguistica non è lo studio delle lingue straniere, non solo. In virtù della nostra innata propensione a comunicare, in quanto animali politici, siamo tutti in grado di sviluppare inconsapevolmente delle competenze linguistiche, più o meno approfondite a seconda della nostra attitudine. La linguistica altro non è che la possibilità, attraverso lo studio, di accrescere il grado di consapevolezza di tali competenze già insite nella nostra natura.
Certo, non si può muovere alcuna accusa a chi non ha ben chiara la distinzione tra “studio delle lingue” e linguistica in senso stretto: in effetti il confine non è inequivocabile. La disciplina è piuttosto antica, già i filosofi greci si ponevano il problema dell’articolazione di una fraase, ma conobbe uno statuto, nemmeno troppo autonomo, soltanto a partire dal 1800 con lo sviluppo della cosiddetta grammatica storico-comparativa. I primi esponenti di questa furono Bopp, professore di letteratura orientale a Berlino, Rask, danese, e Grimm, i cui studi si articolarono intorno al sanscrito e alla ricostruzione di una lingua madre: l’indoeuropeo. L’idea di lingua madre e lingue figlie e la conseguente supposizione di una genealogia trovarono riscontro soltanto nella seconda metà del secolo, quando Schleicher, in virtù del proprio organicismo naturalistico, si occupò di sistematizzare le acquisizioni pregresse.
In questa sede non è naturalmente possibile dare conto della sfaccettata storia della disciplina, ma è bene tenere presente che è, per così dire, giovane e con un contorno piuttosto sfumato; dunque si può forse giustificare chi non ne conosce l’intento. Ciò che pare importante qui è, piuttosto, chiarire che la linguistica è la scienza che studia le lingue, il loro funzionamento e gli usi nelle comunità di parlanti, non il rapporto tra l’uomo e il modo al quale ricorre per esprimersi, perché questo è compito di una serie di altre discipline.
Ma allora non è vero che i linguisti conoscono le lingue? La risposta non è una e non è incontrovertibile: la lingua è un’entità caratterizzata da un’infinita variabilità. Compito di uno studioso è quello di registrare suddetta varietà e farne l’oggetto della propria riflessione, al fine di restituirne una visione quanto più oggettiva e sistematica possibile (fermo restando che ciascun essere umano sceglie il tipo di espressione adatta al contesto in cui si trova, un particolare settore lessicale e uno stile grammaticale a seconda del messaggio che intende veicolare).
Un linguista propriamente detto, sia esso un tipologo o un generativista, che operi in diacronia o in sincronia, è uno studioso che si occupa di riconoscere, rendere esplicite e sistematizzare le problematiche relative alle lingue, che non sono entità uniformi o sempre uguali a se stesse e non di tradurre, per suprema capacità divinatoria, ogni parola della sua lingua in un’altra di una qualsiasi delle lingue del mondo.