Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Cos’hai nel sangue” di Gaia Giovagnoli

“Cos’hai nel sangue” di Gaia Giovagnoli

La vera forma del sangue è una catena, e il suo peso è insostenibile.

Il sangue, nell’esordio narrativo di Gaia Giovagnoli, è il simbolo perfetto dell’ambivalenza che a più livelli governa un romanzo, che si colloca tra realismo magico e romanzo dell’orrore servendosi ora dell’antropologia, ora della trasfigurazione poetica per comporre una storia familiare di dolore, senso di colpa e dannazione.

In una sineddoche che ne svela il potere, il sangue ha sia il significato del legame familiare, sia della violenza e della ferocia; questa catena impossibile da spezzare chiama a sé Caterina, voce narrante e trasfigurante del romanzo, proprio con una ferocia che si impone come una necessità ancestrale.

Coragrotta, minuscolo borgo ai piedi del Monte Sospiro, affiora come un rigurgito del rimosso quando Caterina si trasferisce dalla madre per assisterla in seguito a un peggioramento delle sue condizioni di salute.

La situazione esaspera le dinamiche morbose di un rapporto che sembra autoalimentarsi con tenacia perversa e che poggia su una comunicazione schizofrenica e sincopata, sull’analfabetismo emotivo, sul fanatismo religioso e su insensate sovraistanze morali; le due donne hanno un’interazione caratterizzata da violenza ricattatoria e colpevolizzante, alternata a momenti di tenerezza che anziché consolare disorientano, perché improbabili nella genesi e imprevedibili nell’evoluzione, e che la maggior parte delle volte finiscono nel reciproco ferimento. Il meccanismo si muove sul binario unico che collega sadismo e masochismo, con una puntualità di azione e reazione che ha qualcosa di perfetto: la figlia regredisce a disturbi antichi e irrisolti, come l’anoressia e la bulimia; sfida di continuo la madre, la sua cattiveria e il suo dolore, e lei reagisce con una brutalità tale da scardinarne il ruolo sacro, in un gioco di coazioni a ripetere che ogni volta schiaccia entrambe e che sembra, proprio per questo, dare un senso di giustizia e conforto.

A casa della madre Caterina comincia a sognare un passato che non ha mai conosciuto, a sentire sussurri sovrapposti al reale, a percepire guizzi sotto la superficie di vecchie fotografie: tutto rimanda alla storia della sua famiglia, con quel pezzetto di vita che, per ragioni non immediatamente comprensibili, è stato vittima di damnatio memoriae e ha esercitato sulle due donne il potere allo stesso tempo distintivo e disgregante di un tabù.

Il romanzo si apre sul primo sogno di Caterina: una bambina torna a casa e vede la madre mentre ha un rapporto sessuale con un uomo che non è il padre; i due, osservati, si lasciano scappare una risata che per la bambina è perturbante quanto vedere il sesso della madre, «la carne spalancata come quella di un coniglio»; la bambina fugge sconvolta, quello che ha visto la segnerà per sempre.

A strapparla dal sogno è la visita di Alessandro Spina, un antropologo che insiste per fare domande riguardo Coragrotta, il paese d’origine della madre, di cui lei non ha mai sentito parlare.

La reazione di Caterina è quella di respingere Spina, di ricacciarlo indietro come fosse scappato dalla porta dell’inferno; tuttavia, allo stesso tempo, il lavoro dell’antropologo la attrae in maniera irresistibile, portandola a sostituirsi a lui nella ricerca. Nel viaggio a Coragrotta, la voce di Caterina si intreccia e a tratti si fonde con quella di Spina; si lascia contaminare dal suo diario di campo e dalle sue registrazioni, insinuate in forma di  infratesti all’interno del romanzo.

Coragrotta è un posto maledetto. Le donne sono quasi tutte calve: molte lo sono completamente, altre hanno qualche ciocca rimasta; qualcuna ha i capelli lunghi, principalmente donne anziane. Chi vive a Coragrotta fatica a portare a termine una gravidanza; dopo ogni aborto, la donna deve seppellire i resti del feto sul Monte Sospiro e deve tagliarsi per sempre una ciocca di capelli, che porterà al feto sepolto assieme a pane e latte, per nutrirlo e scaldarlo. I feti abortiti sono i «morticini»; nel bosco in cui sono sepolti vive una razza particolare di cani, mai vista altrove, che la gente del luogo chiama «i lupi nudi»: sembrano lupi, ma sono completamente privi di pelo. Non sono carnivori: si nutrono delle foglie e dei fiori delle «piante di carne», la vegetazione rigogliosa e putrescente che cresce sul Monte grazie alla presenza, nella terra, dei morticini. Nei lupi nudi si incarnano gli spiriti dei feti morti.

I capelli lunghi, quindi, significano sterilità. È qualcosa a cui nessuna si rassegna mai: fino a che ne hanno la possibilità biologica, per tutta la vita, le donne sterili hanno rapporti sessuali con qualsiasi maschio adulto del paese, senza distinzione. I loro capelli lunghissimi sono uno stigma insopportabile, la loro condizione è miserevole e disperata.

Gli uomini, gli «svardùni», ridotti ad animali acefali da procreazione, sono goffi, vuoti, servili e diffidenti; più impauriti che rassegnati, lasciano a loro stessi un margine di congettura e indagine che non hanno mai il coraggio di affrontare davvero.

Spina ha scoperto qualcosa su Coragrotta, su quello che ammorba le genti e la terra e che è terribilmente reale, ma non riesce a trovare conferma ai suoi sospetti e alle sue ipotesi. È così che arriva alla madre di Caterina, forse l’unica in grado di rispondere a domande che a Coragrotta non hanno trovato risposta. Caterina scopre che sua madre è la figlia di Fara, morta da poco, che Spina era riuscito a intervistare: era la protettrice del Monte Sospiro, in grado fare malìe, controllare e deviare i destini, punto di riferimento di quel borgo malato in cui, finché era in vita, proteggeva con tutte le forze il cimitero dei morticini.

La madre di Caterina si è ribellata a Fara, ha lasciato Coragrotta e si è condannata a un’altra forma di martirio, che si rivela a poco a poco in tutta la sua disperata inutilità.

La Coragrotta di Giovagnoli sembra la trasposizione rovesciata dell’orda primordiale: nella mitologia ripresa da Freud sulla scia dell’ipotesi darwiniana, la genesi della civiltà ha visto le donne in un ruolo passivo: sono gli uomini a uccidere il padre e a creare il totem per esorcizzarne la vendetta e placare il senso di colpa; sono loro a voler rinunciare alle donne del proprio clan, per le quali, quindi, la rinuncia diventa un’imposizione – che col tempo è diventata quasi ontologica alla femminilità, in particolar modo nella sessualità. A Coragrotta, invece, Fara ribalta la sentenza realizzandola, ovvero rendendo legge ciò che, tuttora, rimane una forma di schizofrenia alla base della civiltà moderna e delle nevrosi più comuni: lo scopo della donna è solo procreativo. Si ha quindi quello che nell’immaginario erotico maschile potrebbe essere un sogno, una fantasia: ogni uomo è autorizzato a ingravidare qualsiasi donna. Giovagnoli, allora, dimostra come questo possa somigliare invece a un incubo, perché le dinamiche della sessualità a Coragrotta sono bestiali, de-erotizzate, meccaniche, repellenti, e il maschio è in totale rapporto di subordinazione e sottomissione alla femmina.

Il femminile che viene rappresentato è terribile, e lo è proprio dal momento in cui incarna le istanze civili e collettive reprimenti: la donna, utile solo per la procreazione, diventa un mostro spregiudicato che sfinisce e si sfinisce di gravidanze; i morticini, che vengono seppelliti volontariamente dalle madri, ricordano in modo inquietante lo scandalo della sepoltura dei resti organici degli aborti all’insaputa delle madri, anche stavolta in un ribaltamento magistrale: qui è come sarebbe se questa follia fosse stata giudicata ragionevole, comune, ritualizzata e collettivizzata.

Il legame stesso fra la madre e i propri figli, così come il ruolo della madre, il suo simbolismo ancestrale e trasversale, sono resi nella loro ambivalenza: la necessità di recidere un legame, fondamentale nella vita per sancire l’indipendenza e la realizzazione individuale, che in molte tradizioni (fra cui la nostra) è ancora largamente concepito come un dolore incolmabile, viene esasperata nella difficoltà di lasciar andare i propri figli, quand’anche siano solo grumi di sangue.

La madre è quasi sempre una figura dal potere salvifico, è sacerdotessa della vita ed è per la vita; in questo romanzo, alla madre si riconosce la devozione nella morte e nel dolore, come a concretizzare che il suo ruolo è solo quello di allevare un figlio già condannato a un sacrificio ingiustificabile, emblema dell’espiazione di tutto il genere umano di fronte a un divino assente e punitivo.

Ora ha senso. Qualcosa che si rompe, e non smette mai di farlo. Basta un niente.

Caterina soffre di disturbi alimentari: alla base, sempre, c’è una questione legata al rifiuto della femminilità, che con lo squilibrio alimentare ne viene compromessa, deformata. L’eccessiva magrezza toglie le rotondità; un corpo femminile senza forme viene tante volte definito «androgino». Uno dei sintomi più comuni nei disturbi dell’alimentazione è l’amenorrea: un corpo che si affama è infertile, una donna non fertile non è una donna.

Nel Cinquecento si diceva che le streghe pesassero meno delle persone comuni. Doveva essere per forza così, visto che non avevano un’anima. Pochi grammi in meno erano il segno inconfutabile del patto con il diavolo e lo si poteva vedere sin da subito, a colpo d’occhio: la donna appariva emaciata e tutta ossa. Si diceva che alcune delle streghe smettessero di mangiare cose cucinate, perché il cibo cotto è santo e viene da Dio. Non potevano sopportarlo. Ingoiavano solo radici, foglie e carne cruda di bestie e bambini.

Il dismorfismo corporeo si fissa spesso sulle gambe («L’anta dell’armadio che si richiude del tutto, con il suo specchio enorme, mi butta addosso l’immagine di me stessa ancora mezza svestita. Non guardarle. Le mie gambe enormi. Mi giro di schiena»): le gambe sono le radici, e nel caso di Caterina sono deformi, malate, mostruose e incommensurabili. La figura del padre manca del tutto, nonostante la componente maschile sia presente e ogni uomo sia potenzialmente padre di numerosi figli, abortiti e no: come se Caterina fosse nata dal femminile in un processo autoreplicante, che fa più orrore ancora delle piante di carne e dei lupi nudi che se ne cibano.

La rimozione, quindi, riguarda tutta la sessualità, e nella madre di Caterina questo processo si manifesta con forza patogena:

Aveva scoperto tutto quanto da sola, e inventato dove non poteva capire – e deve aver subìto tutto, con una sorta di violenza sottile. Il suo pudore, come un’ulcera, era stato prima caos poi era marcito, diventando turbamento. Paura. Il corpo, tutti i corpi – lo capisco solo ora – le fanno paura.

Le radici la intrappolano, la trattengono, non la lasciano andare: a Coragrotta Caterina ritrova l’appetito, riesce a mangiare con gusto i funghi che crescono in quella terra, come a simboleggiare l’esigenza specifica di riempire la pancia, di gonfiare il ventre, di preparare il corpo alla crescita di un feto al suo interno. Allo stesso tempo, però, il sintomo non si risolve; anzi, diventa funzionale a sostenere sé stesso: l’anima di Caterina può tornare ad avere un peso solo in quel luogo.

Le madri tengono i morticini legati a sé portandogli il cibo; la terra di Coragrotta è infarcita in continuazione, e il continuo riempimento, così come lo stomaco e il ventre, in senso più ampio, diventano gli strumenti di un’incubazione mortifera.

Chi non mangia è una santa o è una strega.

Voracità e astinenza, sia sessuale, sia nel cibo; lasciar andare e trattenere; abbracciare e stringere, asfissiare, fino al dualismo primario di amore e odio: tutto il testo si muove in un ricamo di ambivalenze, che la scrittura di Giovagnoli rende con una grazia che incanta.

Nel romanzo, le parole hanno un peso quasi tattile: i sussurri, come il gracchiare della voce registrata e la bidimensionalità del diario di campo, hanno consistenza fisica; controbilanciano l’andamento sfuggente della trama, in cui gli eventi sembrano sottrarsi allo sguardo, scorrere via a mano a mano che si procede, lasciando però una scia di turbamento, una fanghiglia persistente e subcosciente.

Il mostruoso prende forma in questa evanescenza delicata ma saldamente governata, in cui il simbolico e il trasfigurante, cari all’autrice, compongono una semantica a cui il reale corrisponde con coerenza scientifica, puntuale, e allo stesso tempo ritorta in un riflesso distopico talmente accurato da sembrare autentico.

di Naima Bolis