Susanna Ralaima
pubblicato 5 anni fa in Recensioni

Datità

di Giovanna Frene

Datità

Datità è il titolo della raccolta di componimenti di Giovanna Frene, poeta di Asolo (provincia di Treviso) nata nel 1968. Il testo (prima edizione Manni 2001) è stato ripubblicato nel 2018 da Arcipelago Itaca, piccola realtà editoriale che concentra la sua attenzione sulla poesia a trecentosessanta gradi. In un momento storico in cui questo genere ha sicuramente meno mercato editoriale e minore risonanza all’interno del panorama culturale, la scelta programmatica della casa editrice appare coraggiosa e molto importante.

Nella collana Sorgiva ecco quindi riemergere questa interessante voce poetica che era scomparsa ingiustamente dagli scaffali.

Datità si articola in modo composito: riunisce infatti i testi poetici scritti, e talvolta pubblicati già su altre riviste, da Giovanna Frene tra il 1992 e il 1997. A una sezione iniziale segue la più corposa produzione classificata sotto il nomedi Sette stanze auree, risalente al 1995. Chiude la silloge invece un’appendice con centosessantotto massime, definite Proverbi sospesi, nelle quali la poeta mostra tutta la sua capacità di labor limae nel concentrare in una manciata di parole parafrasi a tratti pungenti, a tratti fortemente introspettive. Il volume è inoltre arricchito da una postfazione di Andrea Zanzotto, che aveva saputo intravedere il talento della poeta e la maturità stilistica dei suoi componimenti, e che si colloca come uno dei Penati, evocati nelle sue stesse parole, all’interno delle tante influenze di Giovanna Frene (tra i testi sono inoltre presenti Sopra un proposito di AZ e Combustione dell’uauatonem, componimento che Frene ha scritto proprio in occasione del settantacinquesimo compleanno del poeta, suo conterraneo, nel 1996).

Il componimento proemiale Autoritratto si mostra fortemente esemplificativo di tutti i temi della raccolta: basti pensare al fatto che si apre con una domanda – invece che con una vera e propria descrizione di sé – che lascia intuire quanta incertezza permei la realtà. L’io poetico stesso ha bisogno di un riconoscimento dal momento che non sa darsi autonomamente una forma («Questa immobile fissità sono io?» p. 9).

La conoscenza è infatti centrale negli intenti dell’autrice, a partire già dal titolo che, per citare la Treccani, indica nel linguaggio filosofico “l’essere dato, il modo con cui un oggetto è «dato» (cioè si rivela) alla conoscenza; talora, meno propriamente, ciò che è «dato»”.

Questo sostantivo ricorre in due componimenti e l’uso è particolarmente esplicativo della duplice capacità della poetica di Frene di evocare suggestioni fortemente concrete da un lato, più indeterminate dall’altro. Nella prima occorrenza infatti la datità è “triste” ed è accostata a quanto di terreno c’è nel “corpo corporale” dell’Amante-bambina (p. 23); nel secondo caso è invece giustapposta all’astratta “essenza delle cose” (p. 55).

Questo continuo controcanto tra materialità e idealità viene assolutizzato dalla poeta: e pertanto, oltre a tutto ciò che è propriamente dato alla conoscenza, emerge sulla pagina con forza dirompente tutto quello che non si conosce (e non si può conoscere) della propria interiorità e dell’Altro, fino a manifestarsi quasi come una presenza fisica e tangibile.

I silenzi diventano strada da attraversare, l’indicibilità e la mancanza di comunicazione aleggiano pesanti tra gli interlocutori di un discorso talvolta amoroso, mentre i rimpianti, palesi e fissati sulla pagina, stringono con forza il lettore «Mi hai insegnato la non-speranza del ritorno / afferrata materia delle memorie vuote» (p. 32)

Se ciò che è astratto si fa concreto, ciò che è già in natura materiale viene invece potenziato nella sua componente fisica, come accade al corpo, punto centrale, anche in quanto mezzo conoscitivo (nel contatto con l’altro e nel sesso, ma anche in questo caso, mai del tutto sufficiente a raggiungere una vera comunione). 

Frene pone grande attenzione alla meccanicità dei corpi, e di conseguenza anche alla sua scomponibilità – ossa, cuore, muscolo, vene, sangue, ventre sono solo alcune delle parole che invadono i versi –, che raggiunge il suo apice nella Mano di Canova, con l’arte che si fa divinità (una nota decisamente funzionale esplica il motivo che l’ha spinta a scegliere proprio Canova, artista dimezzato dopo la morte).

l’abitudine di smembrare i corpi a partire dal cuore

e dalla testa non reseca la mente dal cervello materiale

rimasto nella sede dotata dalla natura deposta

dal suo scettro bestiale           

                                               l’immortalità è un transito

veloce più in fretta le disse la vegetazione innaturale

dei tendini artistici più stretta la scansione delle idee

più nitide le forme le fosse                   

                                                     l’inattività è l’abitudine

dei corpi unigeniti indivisi nella sfera immortale

non separi l’uomo ciò che l’arte ha unito nell’oscuro

del principio smembrando piuttosto il mondo che la natura. (p. 89)

In tutti i componimenti poetici della raccolta, vari nella metrica e nella stessa mise en page, che talvolta presenta l’inserimento di segni grafici, font differenti, anche in un corsivo quasi olografo, si fa ampio spazio la mente, devastata, incattivita, confusa, con tutto il suo bagaglio di complessità e di pensieri tortuosi che non può, non sa, non vuole, non riesce ad esprimere.

Di fronte alla disperazione non sapeva cosa dire per questo

disse non so cosa dire nemmeno seppe dispiacersi

di fronte alle lacrime non sapeva cosa fare per questo

fece proprio niente di niente neppure abbassò lo sguardo

continuava a fissarla penetrandole gli occhi già piovuti a terra

di fronte alla polvere non sapeva cosa amare per questo

amò non lei alla fine delle cose neppure volle racimolarla

che cosa devo fare io con te nulla più nulla più il vento

è già passato passò allora disperse ceneri che cosa

raccogliere incenerito cuore che cosa sciogliere

deturpato amore da tanto sfinito            da tanto, sì (p. 29)

Il destinatario del dire, a volte gridato, a volte sussurrato con disperazione, di Frene non è univoco: alcuni componimenti sono allocuzioni a sé stessa, altri si rivolgono a un voi che ricorda e ribalta quello della tradizione petrarchesca (“Voi non sapete come di notte l’ultrapensiero / mi spinga a sospirare e gemere nella mente / i perduti abbandoni e l’assenza dell’amore” p. 30), altre volte ancora sono indirizzati a un tu capace di strappare il cuore (e mostrarlo con orgoglio secondo il topos amoroso), ma anche di mentire e di morire.

Sparse, si colgono inoltre riflessioni sulla Storia, sulle ferite del genere umano tutto, come il Requiem per Sarajevo.

In tutti i componimenti di Datità, la lingua italiana viene piegata con sapienza al dire di Giovanna Frene, capace di sfruttare al massimo le allitterazioni, i neologismi e i processi di formazione delle parole (molto interessanti i composti, come padre-paterno, madre-materna, senza-immagine, corpomente, nerolattedellalba-alba) per creare dei versi di una bellezza non bella, incredibilmente perturbante.

dell’una e dell’altra salvazione si conosce

l’entità: un passaggio ininterrotto di spostamenti

tortuosi come il senso della genialità un fluttuare

incontaminato di ragionamenti impetuosi

come l’allucinata previsione della realtà/reale:

l’una e l’altra impresse in un’unica costernazione

globale: una specie umana impressa dal furore

animale (e) una specie arborea declassante alla pietra

tetraminerale indiamantita carnesecca

involuta da qualche fessurazione della corteccia:

da loro un esempio una consolazione un termine (p. 90)

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