Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Recensioni

“Deleuze o l’essere chiunque chiunque”: dal Faldone poetico di Vincenzo Ostuni

“Deleuze o l’essere chiunque chiunque”: dal Faldone poetico di Vincenzo Ostuni

Accedendo al cloud impalpabile che avvolge chiunque, si può liberamente aprire il “Faldone” di Vincenzo Ostuni: si tratta di un corpus in continuo divenire, in progressiva revisione e limatura. I testi del poeta prendono tuttavia forma compiuta solo giungendo alla luce editoriale, come è accaduto per questa piccola raccolta di trentaquattro poesie, pubblicate nel 2019 dall’editore Tic, nella collana ChapBooks (seconda serie) curata da Michele Zaffarano.

La collana, caratterizzata dal contrappunto visivo dei disegni acquerellati dell’artista Enrico Pantani, propone le illustrazioni per metà sul recto e per l’altra metà sul verso, in modo che si possano percepire solo accostando due copie di uno stesso volume, come in una specie di gioco di domino che coinvolga i lettori.  Deleuze o l’essere chiunque chiunque riunisce alcuni testi tratti dal Faldone zero-cinquantanove, novanotto-novantanove, una sezione relativa agli anni 1992-2014 (la produzione è minuziosamente suddivisa in periodi; nello stesso anno è poi uscita una successiva raccolta).

Facciamo, inizialmente, un passo indietro e leggiamo quanto scriveva Gabriele Pedullà nella Postfazione alla prima silloge pubblicata da Vincenzo Ostuni, una quindicina di anni fa:

Ostuni scrive dopo lo sgretolamento del patrimonio culturale d’Occidente, quando i libri sono ormai squadernati, l’Enciclopedia del sapere è esplosa (…). Non è detto infatti che in questa posizione si debba vedere esclusivamente il segno di una sconfitta. Il naufragio delle grandi cattedrali del pensiero si presenta anche come un’occasione irripetibile per riaprire la partita (Faldone zero-otto, Oèdipus edizioni, 2004, pp. 134-135).

Gli aspetti caratterizzanti la poesia di Ostuni che indicava Pedullà si possono riconoscere anche in questa Deleuze o l’essere chiunque chiunque. Qui il poeta, da una parte, pare negare un ideale trascendere di senso che non possa essere messo in discussione, ma dall’altra tende, evidentemente, alla ricerca di una verità. Una verità intesa come una risposta definitiva che si neghi o sfugga, possibilmente per sempre. Solo in tal modo la ricerca di senso può trasformarsi: diventa una mancanza originaria che continuamente alimenta la speranza di essere partorita, di tornare ad essere viva, grazie alla ricerca del labor limae.

L’aspirazione alla bellezza sembra dunque poter scaturire, inevitabilmente, da un continuo confronto di posizioni.

(«Sono molto preoccupata per qualcuno, oggi, ma non ho idea di chi», esordisce; «qualcuno che già mi manca, che già rifiuto, qualcuno che oggi credo si sia ferito o perso;

qualcuno che del resto non vorrei davvero conoscere, per non disperdere quest’altra conoscenza. …)

(cit. da poesia n.2, in Sez. II, “Ecceitas”, 2, p.29)

I testi poetici, che si estendono nell’orizzontale della pagina, sono senza titolo, contrassegnati da una numerazione progressiva; organizzati in tre sezioni – “Metafisica 2”, “Ecceitas” e “Deleuze o dell’essere chiunque chiunque” – hanno la caratteristica di essere racchiusi tutti tra parentesi. Sono anche i segni di interpunzione, infatti, a svolgere funzione espressiva; ritmano e punteggiano, così come le spaziature, la modulazione di questo dialogare lirico, di dichiarata ispirazione filosofica.

La scena sembrerebbe essere sempre la stessa, due persone dibattono o conversano, ma lo sviluppo è sempre imprevedibile. Oltrepassato il confine della parentesi iniziale, ogni poesia è aperta da virgolette e successivamente prende la forma di un vivace parlato. A gradi diversi di colloquialità ed intimità – o piuttosto distanza – le parole vengono ad essere scambiate come tra conoscenti, o amici, o forse, chi sa, fra sconosciuti curiosi l’uno dell’altro. I locutori, l’altro verso l’uno, alternativamente, nel tentativo di porsi in relazione fra loro, incidono così, con lo stilo delle loro parole, la superficie senza colore dell’incomunicabilità (annotiamo che in fondo, sempre, in questa strada si incontrano uno scrittore con il lettore; e viceversa, naturalmente).

Se in ogni cosa è ogni altra, ognuna è sempre a tutte le altre esterna», scrivi: «è l’essere ciascuna con ogni altra

                                                                              che genera il nessuna essere sé,

ciascuna essere sé solo nell’altra, e ogni coppia o tripla essere una come ogni altra, cioè come

                                                                                                               [nessuna;(…)

(cit. da poesia n.8, in Sez. III, “Deleuze o l’essere chiunque chiunque”)

Una dinamica di empatia relazionale si problematizza e prende dunque forma e contenuto insieme alla stessa parola, diventando chiaramente uno dei nuclei della ricerca poetica di Ostuni e, come dicevamo poco fa (tra parentesi), potrebbe pure rappresentare una delle cornici strutturanti lo stesso discorso letterario

È un po’ come se, dalla tensione al dialogo, si originasse la serie di complesse e profonde domande sottintese che dipanano il filo d’Arianna di un discorso, di ogni discorso, forse: ma nella ratio trova spazio l’emozione, poiché si mettono in conto anche le parole non pronunciate, intuibili nella loro implosione di risonanza interiore. Il rimando al noto «mi manca chiunque», pronunciato dal personaggio di Rick Vigorous in The broom of the system di David Foster Wallace, ripreso sia nel titolo che nella sezione II “Ecceitas”, vuole probabilmente sottolineare il forte ancoraggio deittico situazionale alla base del flusso creativo. Questo io-tu lirico permette alla vis comunicativa, lontanamente wittgensteniana eincontenibile, di prendere forma nella misura poetica.

E questa misura a me pare l’aspetto tangibile di una ricerca che oltrepassa, sul piano strutturale, gli schemi delle sperimentazioni novecentesche a cui rimanda, e da cui, lontanamente, discende, come quelle di Sanguineti, e di Pagliarani, entrambi, ricordiamo, presenti nell’Antologia dei Novissimi nel 1961 e poi insieme nel Gruppo 63. Il verso di Ostuni rivela una sua linearità espressiva che non esprime frammentazione della tradizione, bensì la rielabora, in una sorta di stesura poetica del διάλογος, il dialogo fra uomo e uomo, con le sue incertezze.

Il dubbio  si fa percepibile, a tratti, perdendo nel fluire poetico ogni traccia di prosaicità, come se potesse diventare una pura struttura paratattica che rimbalza di parola in parola (detta, scritta, letta).

Per intero riportiamo la poesia n.14 della sezione III dove quanto appena accennato appare chiaro:

una vita è ovunque

(«Mi rende nervoso non stabilire le forme», ti dico l’unica volta – ci tocca spesso restarti a sentire: è

                                                                                [questa la differenza dei morti;

«mi consuma che le vicende dei corpi, dei mondi, si allaccino o sleghino come tele o catene arronzate,

                                                                     [si perdano tutte in nessuna, ciascuna

in qualcosa di meno»).

(«Ti sbagli», mi fai; ti pareva. «La nostra vita non è identica a niente; ma la nostra vita migliore è una

                                                                                                    [vita generica, antica,

che a tutte le altre si univoca, e termina

nell’essere ovunque di tutti, di qualunque pensiero,

nell’esser chiunque chiunque»).

Questioni complesse –  nodi filosofici – che tuttavia, proprio nello scorrere cavalcantiano (mi si permetta) dei versi, risultano accessibili – trasformandosi in interrogativi, a volte anche disarmanti, rivolti a chi legga, anche grazie ai numerosi rimandi al registro di situazioni della quotidianità. Gli improvvisi ed inattesi scarti linguistici sono resi, con levigatezza, del tutto impercettibili.

(«Sono seduto, sta’ tranquillo, non cado», così ti scrivo, «ho qui la mia sedia, il tavolo per i gomiti e gli avambracci, ho qui ancora la cucina a gas, funziona, ho le mura e il frigorifero,

 ho quel che mi serve e che ancora no, o non più; i contatori delle possibilità sono sotto il minimo,

                                   ho accanto il gatto con un graffio in fronte, ho qui il telefono e le sue certezze

                                                                                                   [e permutazioni (…)»)

(cit. poesia n.1, Sez. III, cit.)

È evidente che le rifrazioni del piano espressivo divengono metadiscorso. La stessa complessità discorsiva di natura rizomatica, se vogliamo cogliere anche l’esplicito riferimento a Deleuze, ricade evidentemente nei meandri del vissuto interpersonale.

Se una qualche risposta è mai possibile, tornando alle ipotesi di Pedullà, essa pare dunque dover essere proprio ricercata nella percezione, nell’indeterminatezza implicita nello scambio linguistico, nella struttura dinamica connaturale ai discorsi umani, ed anche, infine, in aspetti del vissuto concreto che senza la poesia resterebbero inerti (“solo i pronomi hanno il vocativo”cit. sez. I, “Metafisica 2”, 10).

La rigorosa griglia linguistica di Ostuni permette, invece, la fuoriuscita di un senso per sua natura ossimorico. Il bilancio tra ciò che si riesce e non si riesce a dirsi risulta inevitabilmente sempre provvisorio… forse in certi momenti si ricordano scontri verbali dove chiunque, nel contrapporsi ed incontrare l’altro, avverte la propria come logica conchiusa e cristallina ma non trova lo spazio dell’ascolto, perché sa che di molte precedenti apocalissi si sono effettivamente perse le tracce e la ricerca di senso con il suo travaglio ne chiede il conto. Inoltre, si può aggiungere, in una prospettiva più ampia, che le scelte poetiche di Ostuni possono essere considerate una affermazione sostanziosa di questa ricerca: l’aspetto formale che plasma il verso, libero da vincoli tradizionali, acquista significato come marca linguistica di una tensione verso il tu che leggi – tu ed io, noi che siamo chiunque.  La tensione verso una verità si trasforma insomma verso una forma innovativa, che riesce a contaminarsi in una compiuta amalgama, senza che possa restare traccia del lungo lavorio che leviga un osso di seppia abbandonato, intersecando registri linguistici, rimandi e strutture.

Noi che leggiamo, possiamo sentirci io, o tu. O chiunque, pensando alla nostra condizione di esseri umani.

(«Delle cose dicibili le dette

                    Sono state il minimo indispensabile», hai concluso, con ostentata provvisorietà …)

(cit. da poesia n.16, Sez. III)

di Teresa Capello


Segnaliamo che le poesie citate hanno una diversa disposizione che per ragioni di gabbia del testo non riusciamo a riprodurre secondo la volontà dell’autore: per non perdere questo aspetto, si consiglia di leggerle dall’originale.