Jenny Bertoldo
pubblicato 3 anni fa in Storia

Edith Bruck – il dramma degli sguardi negati

Edith Bruck – il dramma degli sguardi negati

Il documentario Dove vi portano gli occhi. A colloquio con Edith Bruck, realizzato nel 2012 da Ivan Andreoli e Fausto Ciuffi, si articola attorno all’esperienza di vita della scrittrice. Il titolo riprende la frase «andate dove vi portano gli occhi», con cui i sopravvissuti ungheresi si sentirono accogliere dalla comunità al loro ritorno a Budapest. Invito che Bruck sembra aver colto, lasciandosi guidare dal corpo, dalle sue sensazioni, nella vita dopo la liberazione dal campo di concentramento avvenuta nel 1945.

La scrittrice, nata in Ungheria e deportata all’età di dodici anni, dovrà affrontare innumerevoli viaggi, una sorta di moderna Odissea (come quella che ci narra Primo Levi in La tregua) che la condurrà in Italia, a Roma, dove tuttora risiede. Le varie peripezie che vive sono narrate dettagliatamente in un romanzo autobiografico, Chi ti ama così (1958).

In queste pagine Bruck ci consegna una confessione quasi intima del proprio vissuto e dei sentimenti provati. A Budapest, a Praga, in Israele, a casa di parenti o di sconosciuti, Edith, giovanissima, viene costantemente respinta o addirittura sfruttata e abusata:

[…] ero oppressa dalla tristezza, ero sola fra tutte quelle persone, cercavo di sfuggire a quell’ambiente, di dare uno scopo alla mia vita (Chi ti ama così, Marsilio, 1974, p. 75).

La prima parte del documentario è incentrata sull’esperienza del ritorno dopo la liberazione dal campo. Bruck narra la tragedia del non essere accolti dai propri connazionali. Per il sopravvissuto questo rifiuto dell’essere ascoltati, guardati, e soprattutto creduti, rappresenta un ulteriore trauma, tanto pesante da indurre Bruck a dire alla sorella che «era meglio morire nei campi di concentramento che sopravvivere ed essere accolti in questa maniera». La paura di non essere creduti era un incubo ricorrente per i deportati. Il nazismo aveva creato un sistema nel quale il segreto e l’omertà su quanto accadeva nei campi dovevano essere mantenuti a qualsiasi costo – un memoricidio di un genocidio.

Arrivata in Israele, Bruck sente di non essere “a casa” nemmeno lì. La scrittrice usa proprio il termine trauma per esprimere il dolore e la delusione nell’arrivo in quella che per gli ebrei era una terra promessa, un sogno. Bruck evidenzia l’incredulità e lo sgomento provati nell’essere ancora una volta divisi e condotti in un campo di raccolta proprio in quella terra mitica, dove gli ebrei avrebbero dovuto sentirsi finalmente accolti.

Questo trauma si ripete, dice, «dal punto di vista della pelle, della carne, del dolore fisico». È interessante sottolineare come queste parole non si riferiscano, come si potrebbe pensare, al dolore fisico delle privazioni: Bruck infatti precisa, immediatamente dopo, che a causarle queste sofferenze è

il fatto che coloro che sono stati più vicini a te, prima gli ungheresi […] dopodiché c’era il paese del sogno dove sei arrivato e credevi di rimanere per sempre […], quando io ho iniziato a raccontare […] quelli che sono nati in Israele rispondevano “hanno fatto bene […] perché dovevate lottare”, non hanno capito che non si poteva lottare.

Nonostante l’ostacolo comunicativo, per la scrittrice l’arrivo in Italia non è traumatico. La prima figura incontrata, alla stazione di Bologna, è una donna, che le sorride. Questo sorriso potremmo considerarlo un atto linguistico: Bruck infatti dice di sentirsi accolta, compresa, grazie a quel semplice gesto. Lei trova così una volontà di comunicazione, un ascolto in grado di superare la differenza e diffidenza verso lo straniero.

Arrivata a Roma, dove si stanzierà definitivamente, affermerà che «quello che mi impressionava era la gente». Bruck ricorda alcuni operai che le offrirono del pane. Questa offerta di cibo assume un valore fortemente simbolico: come la donna alla stazione di Bologna, anche qui la scrittrice trova un senso di familiarità ed accoglienza. Lo stesso romanzo Chi ti ama così porta una dedica molto significativa: «A mia madre/ per il pane che aveva/ il più buon sapore del mondo».

Il pane viene assurto a simbolo di vita per eccellenza, ma anche di umanità, nel gesto cristologico della condivisione. Questo spezzare il pane da parte degli operai nei confronti di Bruck la fa sentire nuovamente in vita, considerata: «si sono accorti che tu c’eri».

Non è solo il pane condiviso a commuovere Edith Bruck, ma soprattutto la mano tesa verso di lei. Riallacciandosi alla prima parte del documentario, richiama l’importanza dello sguardo dell’altro; ricorda dunque un episodio dell’esperienza a Dachau quando un cuoco le chiese come si chiamasse. Erano questi piccoli gesti di solidarietà a dare la forza di sopravvivere all’interno dei campi di concentramento, a non far morire ogni speranza fino a giungere a quello che veniva definito lo stato di muselmann, causato non solo dallo stremo fisico, ma anche da una totale apatia dovuta allo stremo psicologico.

Nel documentario di Andreoli e Ciuffi il pubblico è messo di fronte, oltre che al trauma dei campi di concentramento, anche a una dimensione che viene meno frequentemente analizzata, a causa di una diffusa spettacolarizzazione della Shoah operata negli anni dai mass media. Si tratta di quanto Levi ha descritto ne La tregua, o la stessa Bruck ha narrato nei suoi numerosi romanzi, cioè di come possa proseguire la vita di un sopravvissuto dopo tale esperienza. Ogni questione, la lingua, il corpo, la fede, l’amore, la maternità, il cibo, diventano per il sopravvissuto nodi complessi, da districare, al cui centro sta sempre il trauma esperito.

Nel romanzo Chi ti ama così e nel documentario citato, Edith Bruck scava all’interno di sé stessa e di quelle esperienze, raccontandosi con estrema sincerità. La sua narrazione non è solo rivolta a rievocare il passato, ma come si evince chiaramente dall’ultima parte del filmato mira a riallacciarsi con il presente e il futuro. Il pesante fardello del testimone necessita di trovare dei testimoni di testimoni che mantengano viva la memoria. La memoria narrata, ovvero quella fra prime e seconde generazioni, tra genitori sopravvissuti e figli, non può essere, ad oggi, l’unica presa in considerazione. La distanza temporale dalla Shoah sta infatti rendendo le testimonianze dirette sempre più rare, e, come sottolinea Bruck, è tempo ormai che tale responsabilità venga assunta orizzontalmente da tutti.

Tuttavia, le opere letterarie dei sopravvissuti permettono di conservare una testimonianza diretta sempre accessibile. Oltre alla letteratura, che per prima si è infiltrata nel muro del silenzio e della cancellazione del ricordo, disponiamo oggi di film, immagini, siti del trauma. Tuttavia la loro esistenza non è sufficiente. Tutto sta nella loro attribuzione di valore, nel modo in cui se ne parla e se ne tramanda il significato. Questo deve essere un compito collettivo, poiché come sottolinea Edith Bruck, il grande trauma della Shoah ha riguardato tutti, non soltanto le vittime, ma anche i colpevoli, nonché tutti coloro che sono rimasti a guardare con indifferenza.