Fatuo – Gualberto Alvino
Lo scrittore Gualberto Alvino ci parla di fatuo, che ne definisce in absentia tutta l’opera, poiché frivolezza, superficialità e inconsistenza stanno agli antipodi della sua (e della buona) letteratura.
Trovatemi una parola più tattile, più sensuale, più evocativa.
Fata, fatato: non può che significar questo, pensai quando la sentii la prima volta da non so quale critico, forse Contini, in una puntata dell’Approdo. Settimanale di lettere e arti. Primi anni Sessanta o giù di lì. Avevo appena imparato a scrivere e annotavo le «belle parole» su un calendario che tenevo nascosto, insieme alle figurine dei calciatori, nel fondo d’un cassetto: ogni sera lo tiravo fuori e le sillabavo una dopo l’altra, assaporandole, pasteggiandole come sorbetti e attribuendo a ciascuna quando un senso quando un altro, a seconda dell’umore. Ricordo virtuista, rabido, epistemofago tra le «belle cattive»; donno, dissueto, fallanza tra le «belle buone». Ma la «bella buonissima» fatuo stravinceva su tutte perché era vestita d’oro e d’azzurro come la Fata di Pinocchio e la Madonna, al punto che la incastravo a forza nell’avemaria.
Ma al ginnasio ne scoprii l’etimo e fu un colpo: dal latino fāri ‘parlare, dire, cantare in versi, celebrare, profetare’ (collegato al greco φημί ‘discorrere, raccontare’), donde fātum ‘oracolo, vaticinio’. Dunque, non più «bella buonissima»: «magnifica e arcibuona». Ma, ahimè, scoprii anche che, dal nobile significato di ‘indovino’, fătŭus vira a quello di ‘sciocco, insulso, ciarlone’. E cominciai a detestarne suono e senso.
Sui banchi del liceo composi i primi versi, che Andrea Zanzotto premiò all’università di Padova, e da allora non ho più smesso di scrivere: poesia, narrativa, filologia d’autore, critica accademica e militante. Ma in nessuno dei miei testi troverete la parola fatuo. Non c’è, e tuttavia mi governa, tenendomi lontano da tutto ciò che è sciocco vuoto leggero ciarliero.
All’università Walter Pedullà parlò un giorno di Antonio Pizzuto, tessendone le lodi con un entusiasmo contagioso. Corsi in libreria, presi Pagelle, lo divorai la sera stessa e capii che significa non esser fatuo. Una scrittura straordinariamente asciutta; non una parola di troppo, non una ripetizione: nemmeno un se, un ma, un dove, un mi.
Non feci in tempo a conoscerlo, ma divenni amico della figlia Maria e frequentai per anni la sua casa romana di via Fregene, avendo libero accesso a tutte le sue carte. Ho pubblicato una quantità di edizioni critiche delle opere edite e inedite: da Sellerio e poi da Bompiani Si riparano bambole; da Fermenti Giunte e virgole; da Cronopio Ultime e Penultime; da Polistampa Pagelle…
Ho scritto tre romanzi: Là comincia il Messico (2008), Geco (2017) e Pelle di tamburo, ancora inedito; ma ho scelto come esempio del mio modo di formare l’incipit del primo, così compendiato da Ernesto Ferrero, allora direttore editoriale della Einaudi: «[…] La scelta di ricorrere alla seconda persona risulta vincente, ed è capace di rendere la Follia — vero e proprio personaggio dell’opera — una voce narrante originale, il cui unico scopo è demolire senza pietà le certezze del protagonista […]».
Da Là comincia il Messico, Polistampa 2008
E tuttavia ti farò credito, ancora una volta, l’ultima, bada, purché non ceda più alla tentazione di sfuggirmi, e smetta quel ghigno saputo, insolente, quell’aria di sfida e di ottusa spavalderia con cui cerchi inutilmente d’opporti all’evidenza. Inutilmente, già, non abbassare la testa. Sei patetico quando abbassi la testa, sbatti le palpebre, increspi la radice del naso e scuoti le braccia quasi a scacciare una mosca. Guàrdati: sembri il buffone del re, dov’è il tuo contegno? Un cane sotto la tavola, che dico?, un pezzente con la mano stesa sarebbe più dignitoso.
Sia chiaro: non ho nessuna intenzione di passare per un intruso, né tantomeno per un insetto. La tua condotta, ti avverto, non fa che allontanare a tuo rischio, a tuo rischio, il momento del rimedio. Credevo d’aver ben riposto la mia generosità, ma ho ragione di temere che tu non sia ancora pronto a ricevermi. Come ho potuto lasciarmi illudere per tutti questi anni senza mai sospettare il minimo inganno? Non ne farò una questione di principio, no certo; ma se fosse così, se in cuor tuo ritenessi di non aver più bisogno del mio umile servizio, scioglimi dalla parola data, sgravami d’ogni responsabilità e ti abbandonerò sùbito al tuo destino di triboli e spine, anche se ne soffrirei molto più di te: conosci la misura della mia affezione.
Alzi il volume della radio, schizzi da un angolo all’altro della casa, ficchi stuoie nelle fessure delle porte, affondi la faccia nel cuscino, mi eviti come la peste e non t’accorgi — non vuoi accorgerti — che il tuo vero nemico è là fuori: branchi di sciacalli sotto mentite spoglie di primati in livrea che bivaccano e si dànno beltempo aspettando un segno di cedimento, un passo falso, per avventarsi sulla tua carcassa e farne scempio. I miserabili un giorno o l’altro la pagheranno. Non dài a vederlo, ma brami squarciare quelle gole e chiudere definitivamente la partita. Colpire per risanare, non è forse così? Hai registrato ogni inflessione delle loro voci da bestie in agonia; hai mandato a memoria ogni tratto dei loro visi arcigni, rugosi, simili a sculture putrefatte; potresti descrivere ogni singolo istante di quelle vite torbide, consacrate alla tua rovina. E sta bene. Ma non puoi trascurare senza danno che anch’essi sanno tutto di te: veterani di cento campagne, sono in grado di neutralizzare i tuoi pensieri prim’ancora che tu li concepisca; indovinano le tue mosse con un’esattezza radiografica; intuiscono i tuoi disegni quasi potessero affondare nel tuo spirito e annetterlo ai proprî dominî (non è escluso che siano in procinto di farlo, né che l’abbiano già fatto: l’imbecillità ha guizzi di purissimo genio, me l’hai insegnato tu).
Ti calunnî quando giuri d’essere costituzionalmente incapace di rivolta. La posta in gioco è troppo alta per perdersi in indugi e falsi dilemmi: bisogna intervenire con decisione, incidere l’ascesso, asportare la cancrena, strappare il tumore alla radice perché l’ordine torni a regnare e i trasgressori siano puniti, ognuno secondo la sua colpa. Ma per far questo è necessario che tu venga in chiaro d’ogni cosa. E nel frattempo devi stare in guardia, rinfocolare i dubbî, tenerli sempre vivi, immaginare l’inimmaginabile, imparare a perfezione la lingua del nemico volgendo a tuo profitto il suo maltalento di nuocerti, ridurre in cenere la tua inguaribile credulità, ponderare gli abissi della loro crudeltà evitando isterismi e foghe da tragedia, spegnere le passioni infruttuose, raccogliere e catalogare le prove, riconoscere i segni premonitori frenando l’impazienza fino all’istante decisivo, antivedere e sabotare le loro strategie, porre ogni cura nella graduazione delle procedure, compulsare i più autorevoli testi in materia per poi scancellarne ogni traccia, smettere di ruminare la collera e farne ragione di forza, valutare il pro e il contro.
Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana, da Vincenzo Consolo a Gesualdo Bufalino, da Sandro Sinigaglia a Stefano D’Arrigo, da Nanni Balestrini ad Antonio Pizzuto. Fra i suoi lavori più recenti le raccolte di saggi Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (postfaz. di Pietro Gibellini, Fermenti 2009), La parola verticale. Pizzuto Consolo Bufalino (pref. di Pietro Trifone, Loffredo Editore-University Press 2012), Scritti diversi e dispersi (pref. di Mario Lunetta, Fermenti 2015), «Come per una congiura». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Sandro Sinigaglia (Edizioni del Galluzzo 2015), la raccolta poetica L’apparato animale (intr. di Giovanni Fontana, Robin 2015), Per Giovanni Nencioni (con Luca Serianni, Salvatore C. Sgroi e Pietro Trifone, Fermenti 2017) e la raccolta di scritti critici Dinosauri e formiche (Novecentolibri 2018). I suoi scritti appaiono regolarmente in riviste accademiche e militanti, di alcune delle quali è redattore e referente scientifico. Collabora con l’Istituto della Enciclopedia Italiana con articoli, recensioni e rubriche.
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».