‘’Gesù’’ di Carl Theodor Dreyer
cronaca di un divorzio annunciato
Il Gesù di Dreyer è un uomo solo con sé stesso, un devoto giudeo che attraversa il deserto dell’incomunicabilità tra le persone, tra l’umano e il divino, con la sola compagnia, non richiesta, della propria ombra e di una luna indifferente in lontananza. Quest’uomo si lascia alle spalle un mondo che prima l’ha ammirato come un minerale raro dai poteri magici e taumaturgici, poi se n’è servito per scopi diversi e personali.
Gesù è stato, per così dire, l’esploratore alla ricerca delle sorgenti del Nilo che, una volta là, constata il fallimento della propria missione. Quello che trova in Palestina infatti non è acqua sorgiva e pura con la quale irrigare una nuova realtà, ma uno stagno torbido dove ognuno cerca di stare a galla, di confondere e confondersi, nell’attesa che qualcuno getti il sasso per smuovere le acque.
Certo, le sue orme sulla sabbia rimangono perché qualcuno poi possa rintracciarne la testimonianza. Tuttavia egli non farà più ritorno, almeno in carne e ossa, perché muore, come farebbe un semplice uomo, al termine della sua esperienza terrena, in quello che per il cristianesimo è il Venerdì Santo.
Non c’è un dopo nelle pagine di Dreyer. Quello del suo Gesù è dunque un divorzio da un mondo che non solo non l’ha capito e, al tempo stesso, non si è fatto capire, ma che l’ha perseguitato. È stato prosciugato della sua forza, apparentemente inesauribile, a causa dell’egoismo degli altri. Gesù è certamente un uomo in fuga. Da chi?
Da una parte ci sono i suoi discepoli che dalla Galilea a Gerusalemme lo accompagnano senza seguirlo, alternando fiducia e dubbi, incapaci di accettare il paradosso di un Messia sofferente che con le sue ferite sanerà il mondo, perché si aspettano piuttosto un Messia trionfante. Poi le famiglie, che lo rincorrono per le strade, incalzate dal bisogno di miracoli che pure lui compie per loro. Ma lo fa con il potere di suggestione della propria mente, estirpando, secondo Dreyer, non una malattia fisica ma gli esiti di una nevrosi somatizzata. E infine le istanze dei patrioti palestinesi che, sfruttando la sua crescente popolarità, lo vorrebbero come capo della loro rivoluzione contro il giogo romano. Intanto di Gesù la sua famiglia si vergogna profondamente e Maria compare una volta sola, quasi di sfuggita. I confronti con il Gesù di Pasolini sono quasi inevitabili…
Dall’altra la longa manus del Sinedrio che prima lo studia, senza aperta ostilità, come qualcosa di nuovo e lo accarezza, benché sempre turbato dall’arrivo di nuovi profeti millantatori, e poi lo ghermisce in dialoghi puntellati da domande tendenziose per farlo cadere in errore nei confronti della Legge mosaica. Quest’ultima viene difesa dai farisei contro chi vorrebbe, a loro dire, riscriverla, rubricando la ‘questione Gesù’ in nome di una loro personale ‘ragion di Stato’. Non mancano poi gli sguardi dei romani che, attraverso occhi non visti, cercano di assicurarsi che questo nuovo predicatore non sia un fanatico religioso che coaguli sentimenti da congiura ai crocicchi delle strade e durante le sue predicazioni.
Il testo, che qui leggiamo nell’edizione Iperborea, curata da Marco Vanelli con un’operazione filologica responsabile sulle diverse versioni, è la sceneggiatura di un film mancato, anche se a lungo meditato, da parte di un celebre cineasta danese che ha sempre attraversato atmosfere cristologiche. Si tratta, sottolinea Vanelli, «di un film mentale, girato in testa tante volte dal regista» a cui è mancata la pellicola che meritava. La stessa sorte che capita anche a certi libri in attesa di un editore. Risulta pertanto conturbante che, in questa occasione, sia un libro a lasciare scorrere dentro di noi un film che solo il teatro, in anni recenti, è riuscito a mettere parzialmente in scena.
Quello di Dreyer è uno script che si basa su una pubblicistica essenzialmente ebraica e che è arricchito da spiegazioni storiche, riflessioni sui personaggi e accurate annotazioni registiche. L’obiettivo irrinunciabile resta imprimere sulla pellicola Gesù calato nella sua dimensione storica e radicato nella sua terra, nella Palestina di duemila anni fa, nei suoi colori, usanze, asperità e sentimenti religiosi.
Si avverte in queste pagine la mano dello zelante documentarista convinto non solo che «per poter astrarre dalla realtà, bisogna conoscere la realtà fin nei minimi dettagli naturalistici» ma anche che «deve esserci una corrispondenza tra la realtà delle emozioni e la realtà delle cose». Elementi, questi, che si prestano a una esperienza di lettura di molti libri dentro un unico libro.
Interessante è notare quando Dreyer comincia a scrivere il suo Gesù. A ispirarlo sono gli anni dell’occupazione nazista del proprio paese, la Danimarca, nei quali si riverberano le vicende avvenute secoli prima in Palestina. Un passato chiamato nuovamente a deporre nel tribunale della Storia – nel cui solco avvertiamo lo storicismo delle opere di Simone Weil –, nell’assonanza tra l’aquila romana e la croce uncinata.
C’è una terra invasa e occupata dallo straniero, i romani sono dappertutto e hanno spie ovunque, il popolo si adegua alla nuova realtà. Chi silenziosamente, cercando di passare inosservato; chi nell’aperta collaborazione con l’invasore, come gli esattori delle tasse, di quello che va dato a Cesare, o nell’altalenante compromesso del Sinedrio, la massima autorità religiosa di allora, per non perdere i privilegi religiosi che comunque i romani concedono; c’è infine chi sceglie la sedizione, come i «rivoluzionari» che Dreyer inserisce nella sceneggiatura, partigiani autori di azioni di sabotaggio e vittime di camere di tortura, in un contesto di costanti perquisizioni notturne nelle case e di rumore di sandali chiodati contro il selciato.
In questo scenario prorompe il messaggio di Gesù, il «non accettante l’ordine delle cose come stabilito dalla Storia», come sottolinea Goffredo Fofi nella postfazione del libro. Messaggio che, nelle sue diverse enunciazioni, Dreyer racconta per immagini dialoganti tra di loro. Si parte dal contesto, la macchina da ripresa scruta e cattura elementi della quotidianità palestinese per molti versi anticipatori di quanto accadrà. Ne sono un esempio gli uomini che spaccano le pietre lungo la strada dove di lì a breve passerà il corteo funebre di Lazzaro, gli alberi di melograno in piena fioritura osservati dall’alto mentre sullo sfondo sta per avvenire l’ingresso di Gesù nella Città Santa, il suono di un flauto dei bambini che giocano al matrimonio che è il sottofondo mentre il Sinedrio è riunito e si divide sul ‘problema’ Gesù, un primo piano su un vasetto di alabastro contenente un unguento di nardo puro prima che avvenga l’ultima cena. Dati questi elementi, si intuisce che la sceneggiatura di Dreyer si presenti come una narrazione continua al cui interno la scena successiva porta in dote un elemento della precedente.
Come dunque non ravvisare nella rottura delle pietre un’anticipazione della liberazione dal sepolcro di Lazzaro, nel melograno, che per le culture antiche testimonia la presenza terrena del divino, l’arrivo del messaggio messianico nel cuore della terra destinato a accoglierlo, Gerusalemme, nel matrimonio simulato la non compiuta unione dei farisei nei confronti di Gesù, nell’unguento costosissimo, con il quale i profeti solevano cospargere il capo dei re, il rimando alla passione di colui che verrà condannato da Pilato per essersi dichiarato re, per quanto spirituale, dei giudei?
Tornando all’operazione di Dreyer, si è detto e scritto che con questo film il regista voleva scagionare gli ebrei dalla morte di Gesù per addossarla alla sola responsabilità dei romani, anche per scardinare la macchina nazista che di questo faceva arma di propaganda. Ne consegue che in tutta la sceneggiatura Dreyer insista a più riprese sul fatto che non c’è alcun conflitto tra l’ebraismo ufficiale e il messaggio dell’uomo venuto da Nazareth. I farisei si mostrano aperti a Gesù e alla sua predicazione. Hanno, certo, i loro disaccordi e le loro discussioni dottrinare, ma il tono si mantiene su coordinate concilianti ed è «con il cuore pesante» che il Sinedrio consegna Gesù ai romani perché lo condannino.
A ben guardare, nonostante la lettura di Dreyer, cogliamo istanze religiose che sembrano politiche. La sceneggiatura si allontana da come i Vangeli presentano la storia e, se il film fosse uscito, sarebbe stato occasione di un acceso dibattito, come succede sempre quando su una pellicola o in un libro si parla di Gesù.
Ci sono tuttavia tre figure, altri attori, altri primi piani, di cui Dreyer offre un’interessante e inedita ‘ripresa’. Questi campeggiano quando il tono della sceneggiatura si acuisce. Il sommo sacerdote Caifa, l’idealista, il discepolo Giuda, lo strumento di Dio, e il governatore Pilato, l’uomo di una razza superiore. Converrà forse catturare i lampi di questi personaggi per fare luce su altre più recondite motivazioni di questo divorzio e fuga di Gesù dagli uomini…