György Konrád
Ieri è scomparso uno dei più grandi intellettuali contemporanei ungheresi: György Konrád. La parabola della sua vita e delle sue opere è lo specchio fedele della storia recente e contemporanea di una nazione che stenta a trovare stabilità ed equilibrio.
Non è semplice dare un’idea dell’Ungheria attuale, meno che mai della sua storia, la cui complessità è inversamente proporzionale alla sua estensione geografica. Per facilitare il compito conviene ricorrere a qualche esempio concreto, a vite di persone realmente esistite, e forse il racconto diventa più comprensibile. Fra queste, la lunga e contorta storia di György Konrád, intellettuale di fama internazionale ma ancora poco conosciuto in Italia, è sicuramente ben rappresentativa.
György Konrád nasce il 2 aprile 1933 a Berettyóújfalu, un paese che si trova in Bihar, la regione orientale dell’Ungheria spezzata in due in seguito al trattato di Trianon del 1920, in base al quale parte della Transilvania diviene parte della Romania. Da quel momento in poi la regione si chiamerà infatti Bihar Monco fino al 1940, quando tutti i territori saranno restituiti all’Ungheria come contropartita dello schieramento della stessa Ungheria al fianco della Germania nazista, per tornare di nuovo alla Romania nel 1945 con la sconfitta del Nazismo e dei Paesi a esso alleati.
A Berettyóújfalu la famiglia Konrád, con un passato nel commercio, possiede una ferramenta che assicura un buon tenore di vita, nonché una posizione rispettabile non solo nella comunità israelitica ma anche a livello cittadino. György Konrád e sua sorella Eva, tre anni più grande di lui, frequentano la locale scuola ebraica fino alla primavera del 1944, quando l’Ungheria viene invasa dai tedeschi e le scuole ebraiche vengono chiuse. A causa delle leggi razziali i genitori vengono arrestati e deportati in Austria; il 5 giugno i due ragazzi riescono a partire con i cugini István e Pál Zádor per Budapest, dove sono attesi da parenti. Il giorno dopo viene deportata l’intera comunità ebraica di Berettyóújfalu nel ghetto di Nagyvárad (oggi Oradea, città in Romania), e da lì ad Auschwitz.
Sopravvivono alle persecuzioni, alla guerra e all’assedio di Budapest, grazie alle abili cure di una zia che riesce a trovare rifugio per tutti loro in una casa sotto protettorato svizzero a Budapest.
L’Armata Rossa invade l’Ungheria, il 13 febbraio 1945 libera Budapest, e il 4 aprile tutto il paese.
I fratelli Konrád ripercorrono la strada di casa e alla fine di febbraio sono di nuovo a Berettyóújfalu, dove trovano la casa vuota. A giugno tornano i genitori e, dei quasi mille che prima della guerra formavano la comunità ebraica del paese, la loro è l’unica famiglia sopravvissuta intatta. Di questa tormentata storia parla il romanzo autobiografico di György Konrád, Partenza e ritorno (Keller editore, 2015, mia traduzione).
Il padre riapre la ferramenta, prende con sé i fratelli Zádor rimasti orfani e una nipote, orfana pure lei mantenendo i cinque ragazzi agli studi in città diverse finché, nel 1950, viene colpito dall’ondata di nazionalizzazione del regime dittatoriale di Mátyás Rákosi, lo Stalin ungherese. Alla famiglia vengono requisiti sia la ferramenta che la casa e i membri dichiarati nemici di classe, con tutte le conseguenze del caso. Per fare un esempio, György Konrád può proseguire gli studi solo all’Istituto Russo dell’università ma due anni dopo, nel 1953, lo espellono anche da lì quando l’istituto assume il nome di Lenin, e può accogliere solo studenti di origine irreprensibile, ovvero di famiglia operaia o contadina. Nell’autunno dello stesso anno riesce ad intraprendere gli studi alla facoltà di Lettere dell’ELTE di Budapest che conclude nel 1956. Nel corso di quei tre anni ben due volte rischia l’espulsione per le sue idee politiche, ma il filosofo György Lukács e lo storico della letteratura István Sötér, suoi professori, riescono a fargli evitare il peggio. Scrive la tesi di laurea su Károly Pap, scrittore ebreo ungherese morto nel campo di Bergen-Belsen nel ’45, autore di numerosi racconti, saggi, opere teatrali e tre romanzi, uno dei quali, Azarel (pubblicato in Italia da Fazi nel 2009 nella mia traduzione) è considerato uno dei capolavori della letteratura ebraica mitteleuropea.
Inizia a pubblicare e nell’autunno del 1956 entra a far parte della redazione di un giornale critico nei confronti del regime. Partecipa come guardia armata della squadra organizzata dagli universitari alla rivoluzione del ‘56, ma solo come osservatore, senza sparare un colpo. Dopo la sconfitta della rivoluzione perde il lavoro; la sorella, gli amici, i cugini scelgono l’emigrazione, ma lui rimane in Ungheria. Vive di lavori saltuari, in parte intellettuali, in certi periodi lavora persino come operaio non qualificato. Solo nel 1959 riesce finalmente a trovare un’occupazione stabile come ispettore del Tribunale dei minori. Nei sette anni trascorsi all’Ispettorato matura il suo primo romanzo di tematica sociale, Il visitatore (Bompiani, 1975), per il quale fatica a trovare un editore ungherese, che invece sarà prontamente tradotto e pubblicato all’estero. Per le sue idee non ortodosse nel 1973 viene ammonito dalla Procura di Stato ed allontanato dal suo posto di lavoro. Nell’ottobre del ’74 subisce anche un breve arresto per un manoscritto sociografico e il regime esprime parere favorevole al suo espatrio, con la facoltà di portare con sé anche la famiglia: è opportuno liberarsi del personaggio scomodo che riesce comunque a diffondere in patria idee liberali e anticomuniste, seppure antirazziste e antifasciste, sotto forma di scritti samizdat. Dal ’74 e fino alla caduta del Muro, tutte le sue pubblicazioni vengono contrassegnate con la lettera Z, che significa materiale non accessibile e messe all’indice. Non può comparire neppure in trasmissioni radiofoniche o televisive. Nel 1976 gli viene comunque concesso il passaporto e accetta l’invito del Deutscher Akademischer Austausch Dienst che gli offre una borsa di lavoro di un anno. Al termine dell’anno berlinese approfitta di una seconda borsa per trascorrere un anno anche negli Stati Uniti. Torna a Budapest per ripartire poco dopo e negli anni a venire passerà lunghi periodi in Europa e ancora negli Stati Uniti dove insegnerà anche all’università. Il tutto con il beneplacito e il sollievo malcelato delle autorità magiare. Nel 1989, alla cessazione del divieto, ben cinque suoi libri vedono la luce in Ungheria. Nell’anno seguente viene insignito del premio più prestigioso ungherese ed eletto presidente del PEN Club Internazionale, incarico che ricopre fino al 1993. Negli anni dell’auspicata stabilizzazione della democrazia, pubblica numerosi libri e riceve una lunga serie di prestigiosi riconoscimenti sia in Ungheria che nel mondo. Ora era di nuovo all’opposizione: le sue forti e ragionate critiche al governo Orbán, che secondo lui rappresenta un pericolo non solo per la democrazia della sua patria ma anche a livello europeo, comparivano sulle pagine dei quotidiani e settimanali di maggiore diffusione.
di Andrea Rényi