Claudio Musso
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

“I patrioti” di Sana Krasikov

questione di strappi

“I patrioti” di Sana Krasikov

Florence, genitori ebrei e nonna lituana, è una giovane donna irrequieta che non ama risparmiarsi. Negli anni successivi alla Grande Depressione, evento che ha determinato un collasso economico ma anche fratture sociali sempre più acute, decide di abbandonare la natìa Brooklyn e il sogno americano, ormai considerato specchio di una realtà retriva. Così si trasferisce, come peraltro altri suoi connazionali, nella Russia proletaria e staliniana.

A determinare questo strappo non è una precisa scelta ideologica ma l’amara consapevolezza che l’idea di un’America votata alla libertà e al benessere del singolo è solo propaganda. Il suo sguardo quindi si volge a Est, verso un luogo, la Russia appunto, dove il futuro, così lei crede, è già presente, prefigurando una nuova sé stessa e «una vita di significato e di conseguenza». Si lascia alle spalle gli affetti familiari, un lavoro come interprete, ma soprattutto un intero «Cafarnao capitalistico» dispensatore di ingiustizie e, sorretto da un malcelato antisemitismo, sempre alla ricerca, di un capro espiatorio da immolare.

Se resto qui, ho paura che finirò nelle file degli indifferenti o, peggio, degli eterni insoddisfatti. Questo pensiero è ciò che mi spaventa di più. Qualunque sia il nome di questo nuovo desiderio che sento nascere in me – vedere il mondo con i miei occhi – so che è finalmente giunto a maturazione.

Una volta in Russia percepisce che in quella terra la sua natura traboccante può finalmente renderla una donna libera in un contesto di egualitarismo, applicato e non solo teorico, e di inclusività. Le viene da sorridere a pensare alla disobbedienza civile tanto in voga in America: non basta tagliarsi i capelli, accorciare le gonne, iscriversi all’università o soffiare fumo di sigaretta su un mucchio di stantii comandamenti vittoriani per cambiare un mondo che, in fondo, è dominato da uomini e perpetua sempre sé stesso. Questo non fa di Florence una femminista ma una donna capace di individuare, per citare Montale, «il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità».

Florence considera sé stessa una canzone fuori moda che, giunta sul suolo russo, viene riadattata in una sorta di versione gitana che risuona in tutte le latitudini della Russia: prima conosce e prova l’indigenza proletaria dell’estremo est sovietico nelle miniere di lignite, poi un successivo miglioramento con un lavoro a Mosca nell’ufficio valute estere, a cui si affiancano qualche serata danzante al circolo espatriati e i primi contatti con l’intellighenzia moscovita, infine la caduta nella voragine e un ’viaggio nella vertigine’ alla Evgenija Ginzburg che trasformerà i suoi sogni in incubi. E forse quella verità tanto ricercata si presenta con fattezze inattese.

Tuttavia è una donna tenace, per quanto sola, che comincia progressivamente a pensarsi russa – e a espungere dalle proprie labbra la parola ”America” (e lo farà per tutta la vita). La sua non è devozione nichilista a Stalin ma capacità di credere con cuore meno indeciso che, nonostante quello che vede, le cose possano davvero cambiare. Questa convinzione le consente inoltre di diluire quella autocommiserazione che, se è comoda per chi la prova, lascia il resto delle persone indifferenti. Non stupisce infatti che abitare una nuova lingua, con cui gli altri possano comprenderla, determini anche prendere atto di un altro sé:

mentre si sforzava per esprimersi in una nuova lingua, si sentiva sgravata dal primordiale fardello dell’eccezionalità. Era come se la sua intima essenza trovasse una nuova forma nella nuova lingua; certo non altrettanto raffinata, senza dubbio, ma in qualche modo affrancata dalla morsa della fretta nervosa, delle qualifiche e delle giustificazioni: mediocre, rozza e brutta come percalle appena tagliato. Scoprì che la sfida dell’integrazione poteva essere più emozionante del perso di emergere.

A distanza di decenni, Julian, il figlio di Florence, oramai cittadino americano, è costretto nel 2008 – siamo nel secondo mandato Putin – a recarsi in Russia sia per questioni lavorative legate a un importante accordo commerciale tra Washington e Mosca sia per tentare di indurre il figlio Lenny a tornare a casa. Il giovane, esattamente come aveva fatto anni prima la nonna Florence, ha voltato le spalle al proprio paese per cercare in Russia un nuovo senso di appartenenza e, come «un cowboy alle frontiere dell’impresa privata», è finito nelle spire di traffici illeciti travestiti da leciti.

Per Julian il viaggio è un’occasione per ripensarsi e ritrovarsi. Rivedere Mosca è come ritrovare una donna complicata a cui si è legati sin dall’infanzia. Una città che non è invecchiata con grazia ma che si è ringiovanita con una successione di lifting sempre più costosi, a conferma delle sue tante presunte metamorfosi. Inoltre, pungolato dal passato e dal presente, rievoca gli anni dell’orfanotrofio – al quale era stato affidato mentre Florence scontava la sua pena – e quelli di oggi, in cui è un professionista affermato che si prende la sua rivincita sull’infanzia. Ma il viaggio a Mosca è soprattutto teso ricomporre parti mancanti dell’esperienza sovietica della madre, con l’assillo di un dubbio che da tempo occhieggia nei suoi pensieri: come ha fatto Florence a superare tutte le prove che quella terra le ha imposto uscendo sì minata nel fisico ma senza mai un cenno di condanna e, una volta costretta a tornare in America, a trincerarsi dietro un sorridente silenzio dal quale non trapela nulla? Julian pensa che alcune risposte potrebbe trovarle consultando gli archivi della polizia segreta russa, allora accessibili ai cittadini.

I patrioti (The Patriots, 2017) – che l’editore Fazi ha il merito di pubblicare nella limpida traduzione di Velia Februari – è il primo romanzo di Sana Krasikov, scrittrice nata nell’Ucraina sovietica e trasferitasi poi negli Stati Uniti, in un percorso inverso rispetto a Florence.

Il testo, che copre il periodo che va dal 1932 al 2008, presenta una doppia narrazione a capitoli alternati. La prima, piuttosto pervasiva, rievoca le vicende di Florence, dal suo arrivo in Russia fino al secondo dopoguerra. A questa se ne affianca una di impianto più introspettivo, sul figlio e sul nipote degli anni Duemila. Il risultato è un continuo intersecarsi di prospettive e esperienze che rifrangono il ruolo di essere genitori, la recente storia russa e il senso di patria – quella in cui si è nati o piuttosto dove si è deciso di vivere – a cui si legano a doppio filo temi come identità, lealtà, verità e autoinganno. Fra le pagine serpeggia costante la domanda su cosa significhi, ieri come oggi, essere un patriota. Osservando le vicende raccontate dei protagonisti, quella stessa domanda diventa: un sovietico, un americano o un ebreo?

Su quest’ultima risposta, che rimane sempre sottotraccia in tutta la narrazione, si concentra la focale di questo intenso e corposo romanzo generazionale che scandaglia, per così dire, uno stagno, tra presente e passato dei personaggi, in cerca di qualcosa di potente e pericoloso. A ben guardare Florence è figlia di immigrati ebrei di origine russa in America, poi un’americana tra i sovietici, eppure è sempre stata percepita, sia a Ovest che a Est, come un’ebrea. In fondo non appartiene mai del tutto a nessun luogo, neanche al paese a cui dedica volontariamente la propria vita. E anche quando, durante la seconda guerra mondiale, offre il proprio sostegno, insieme al marito – anch’egli ebreo americano trasferitosi in Russia e poi rimasto lì intrappolato – al comitato antifascista ebraico di istanza a Mosca, nelle sue orecchie tornano a farsi sentire parole acuminate di antisemitismo, le stesse che aveva ascoltato dai predicatori alla radio quando era in America.

È singolare il fatto che i sovietici trascurino la doppia identità di Florence come ebrea “sleale” e straniera “pericolosa”, mentre la usino per controllarla e adescarla, nel momento in cui il regime di Stalin diventa sempre più paranoico, fino a sacrificarla. L’entusiastica decisione di Florence di stabilirsi in Unione Sovietica e dare il proprio contributo all’edificazione di un nuovo tempo non è sufficiente a proteggere lei e la sua famiglia da chi nel cuore della notte potrebbe bussare alla porta della loro casa che il lettore sospetta da sempre stia per arrivare. Una generazione dopo, anche Julian subisce una discriminazione, meno virulenta ma ancora istituzionalizzata in Unione Sovietica, quando la sua tesi di dottorato viene respinta, essendo già stata raggiunta la quota dei dottorandi ebrei. E mentre Florence cerca la sua nuova dimensione e Julian elemosina un titolo di studio, dov’è finita l’America? La storiografia sugli Anni Trenta si è occupata poco di questo aspetto e Krasikov, grazie ad un lungo lavoro di ricerca che intrama il testo, ha il merito di riportare all’attenzione dei lettori: moltissimi cittadini americani, trasferitisi in Russia per ragioni tra loro spesso diverse, furono letteralmente dimenticati dal proprio paese e lasciati al loro destino. Fatto, questo, che complicò ulteriormente la loro percezione di patria.

In questo libro la Russia è come il fiume descritto due volte in Vita sul Mississippi di Mark Twain: prima con gli occhi dell’infanzia, di chi ancora non lo conosce, soggiogato dalla bellezza colossale delle sue acque e delle sue potenzialità; poi con gli occhi del navigatore esperto che sa che un tramonto dorato presagisce forti venti al mattino e che l’incresparsi armonioso della corrente è foriero di pericoli mortali. Perché il paese in cui è arrivata, anche dopo le vicende della Shoah, pullula di segnali di pericolo per chi agli occhi degli altri ha nell’ebraicità la propria patria, a prescindere dai passaporti.

Ma torniamo alla domanda-assillo di Julian: perché, nonostante tutto, Florence non ha mai abiurato quel sistema?