Riccardo Grozio
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

Il poeta spaccapietre: Pascal D’Angelo, “Son of Italy”

Il poeta spaccapietre: Pascal D’Angelo, “Son of Italy”

Riproposto dall’editore readerforblind, nella collana «le polveri», con la prefazione critica di Maura Chiulli e la pregevole traduzione di Sonia Pendola, ritorna Son of Italy, un classico dell’emigrazione che ha conosciuto grande notorietà, soprattutto negli Stati Uniti, quando nel 1924 fu considerato il libro dell’anno.

Un caso letterario con un protagonista insolito, uno spaccapietre italiano: Pascal D’Angelo, abruzzese di Introdacqua salpato verso il nuovo continente insieme al padre nel 1910 in cerca di fortuna. Scritto in prima persona il libro, di chiaro stampo autobiografico, si apre sui primissimi ricordi dell’infanzia dell’autore, narrati attraverso le paure di un bambino che spesso fugge e si rifugia in campagna per sottrarsi ai castighi degli adulti.

L’impronta per certi aspetti ‘antropologica’ che connota la natura magica dell’Abruzzo è piuttosto marcata: a far da sfondo è la Maiella, montagna che tutto scruta con fare quasi materno, nella terra mitica dei Sanniti, popolata da streghe, maghi e vampiri e abitata da una genìa che crede nei sogni e nell’esistenza di strani esseri che vagano per le strade.

Lo stile è accurato e impreziosito da alcune ricercatezze modulate sul registro poetico: «Un inverno Alberto andò col suo gregge verso le verdi pianure pugliesi. La primavera tornò, ma senza di lui». Questa tendenza poetica si riscontra, sin dai primi capitoli, in dieci componimenti che rivelano il mondo interiore dell’autore. Ricordiamo quello dedicato proprio alla Maiella (e pubblicato, dopo varie vicissitudini, sulla rivista «The Nation»):

La montagna innalza in preghiera le sue alte cime indagatrici, / e in alto punta lo sguardo, verso un muto cielo, / E dentro di sé non riesce contenere l’ira che si scatena in tortuosi/ torrenti. / Simili a perle di rugiada che gocciolano lungo i solchi rugosi di / questa gigantesca inquisitrice / Io e le mie capre scendevamo a valle, di ritorno paese. / Ma la mia mente era una forra popolata di rose selvatiche, / gorgogliante di fresche acque azzurrine. / E la montagna attendeva una riposta dall’impassibile cielo.

Per il protagonista invece l’impatto con l’America è piuttosto traumatico. Anche qui c’è tanta fame e, quando si trova, il lavoro offerto è duro, di badile e di piccone. Né mancano i frequenti soprusi dei capisquadra e dei padroni: i braccianti sono intrappolati in un eterno lavoro forzato, che l’autore descrive con netta precisione.

Il commissary man, ad esempio, fornisce manodopera alla compagnia e in cambio ha la concessione dello spaccio, sua principale fonte di guadagno; inoltre esercita sui braccianti un potere assoluto. Spesso allettati da buone paghe e dal viaggio gratis, questi si trovano a vivere in condizioni disumane. I primi a essere licenziati sono quelli con famiglia, che spendono poco; gli ultimi, gli scapoli, che spendono di più, soprattutto gli organizzatori di partite – non di partiti , in cui la birra scorre a fiumi.

Fa da contraltare alla cruda e ironica descrizione delle contraddizioni della libera America la vocazione poetica che salva Pascal dalla disperazione: «Quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti, e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scrivo bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta».

D’Angelo, quando il padre gli propone di tornare a Introdacqua, preferisce rimanere in America dove ormai, nonostante le difficoltà, ha messo radici, e dove spera di trovare nuove opportunità.

Già da bambino, pur frequentando saltuariamente la scuola, perché spesso impegnato ad aiutare la famiglia nei campi e sulle montagne, D’Angelo aveva dimostrato una facilità di apprendimento che lo spinge a cimentarsi con entusiasmo nello studio della lingua inglese. Compra un piccolo Webster di seconda mano e comincia a scrivere testi strampalati per ottenere l’attenzione dei compagni. Ci prova anche con la musica, ma senza successo. Aspira a diventare scrittore e poeta. In biblioteca scopre Shelley. Rimane molto colpito dalla la forte assonanza fra Prometeo liberato e il climax dell’Aida, da cui è rimasto stregato:

Una bellezza come quella dell’Aida l’ho ritrovata solo tra le più belle poesie di Shelley e forse in Keats. Alcune sue parti erano di una dolcezza talmente sconvolgente da lacerarmi l’anima. Ci furono volte in seguito in cui sul lavoro, tra la confusione dei motori, lo stridio delle vetture, e ogni fracasso possibile immaginabile mi sentivo avvolgere da quelle melodie divine. D’istinto mi sarei precipitato al mio vagone per comporre un’altra Aida, nonostante non sapessi, né sappia tutt’ora distinguere una nota dall’altra. È la musica, che io adoro, è una lingua che non ho ancora imparato.

Nel novembre 1919 abbandona il lavoro da operaio per recarsi a New York e tentare l’avventura letteraria. Sarà un periodo di fame e di stenti ancor più duro di quello da bracciante. Spedisce poesie a numerosi editori, ricevendo puntualmente un garbato diniego, spesso espresso su biglietti prestampati, poi inizia a far visita direttamente alle redazioni, ottenendo il medesimo risultato.

Nel frattempo, per risparmiare va ad abitare nella più scalcinata topaia di Brooklyn e sceglie uno stile di vita frugale, accontentandosi di pane raffermo e di qualche banana a buon mercato. Tutto in nome di un’ideale, la poesia, al quale credeva fermamente, seguendo una naturale fiducia nell’avvenire che gli aveva insegnato l’America.

Sorretto dall’ultimo barlume di speranza decide di partecipare con tre opere a un concorso indetto dal giornale «The Nation». Non ricevendo alcuna risposta, D’Angelo tenta una mossa disperata, e scrive all’editore del giornale una lunghissima lettera: «E il miracolo accadde. All’improvviso il mio nome fu sulla bocca di tutti. Non passò molto tempo che il mio appello riuscì a riscuotere parecchi entusiasmi, e gli editori di influenti settimanali americani si mostrarono interessati alla mia opera». Divenne un caso letterario, fu definito «the pick and shovel poet» e nel 1924 l’editore Macmillan di New York pubblicò Son of Italy, con prefazione di Carl Von Doren, critico letterario e direttore di «The Nation».

Ancora oggi il libro di Pascal D’Angelo continua a essere considerata la prima opera in inglese di un emigrato italiano sbarcato in America senza “cultura” e senza possedere una perfetta conoscenza della lingua. Ancora oggi questo libro, con i drammi e le fotografie delle dure condizioni lavorative degli emigrati, continua a parlare al nostro presente.