Il sessismo linguistico in Italia
perché nel 2021 è ora di declinare le professioni al femminile
«Parlare non è mai neutro», diceva la filosofa e linguista Luce Irigaray. E aveva ragione. Nella seconda metà degli anni ’80 Alma Sabatini pubblicò un volume intitolato Il sessismo nella lingua italiana, sollevando la questione del sessismo linguistico.
Oggi, dove i cambiamenti sociali e culturali corrono sempre più veloci, questo argomento non potrebbe essere più attuale. La competenza linguistica italiana nei secoli è sempre al centro di interessanti dibattiti: pensiamo anche soltanto alla questione della lingua, a proposito dell’identità dell’italiano, sollevata da Dante nel Trecento, alle Prose della volgar lingua di Bembo, al dibattito ottocentesco di Manzoni e Ascoli, o alle nuove questioni linguistiche di Pasolini del 1964.
Il nostro modo di parlare dice molto della nostra società e della direzione in cui sta andando: perché non abbiamo problemi a dire infermiera ma non vogliamo dire ingegnera?
Grazie a Il sessismo nella lingua italiana (1987), scritto per la Commissione Nazionale per la Parità e le Pari opportunità tra uomo e donna, Alma Sabatini ha spianato il terreno per lo studio di un eventuale effetto sessista nella lingua italiana. Sì, del nostro paese in particolare. La studiosa, che fu tra le fondatrici del Movimento di Liberazione della Donna, elenca tutte le situazioni linguistiche che contribuiscono a eclissarne la figura, come ad esempio l’identificazione delle donne come categoria a parte e la mancanza di una forma femminile simmetrica a quella maschile soprattutto per cariche, professioni e mestieri.
Il fatto che il problema desti meno polemiche quando si tratta di parole come parrucchiere o segretario e non quando vengono tirati in causa titoli socialmente reputati più prestigiosi dovrebbe portarci verso un’ulteriore riflessione: ci sono figure che nell’immaginario comune sono ancora esclusivamente femminili, e tutto ciò è strettamente collegato al nostro background culturale, in cui le donne non svolgono determinate professioni. Nonostante tutto, l’italiano medio prova tuttora una vera e propria repulsione per la parola avvocata. E se dobbiamo dire magistrata, peggio ancora.
A questo problema contribuisce ancora di più il giornalismo del Belpaese: tra il primo novembre e il 15 dicembre 1984 sono stati analizzati alcuni dei più importanti quotidiani nazionali come il «Corriere della sera», «Il Mattino», «Il Messaggero», «Il Tempo», «Il Giornale», «Paese Sera», il settimanale «L’Espresso» e due riviste femminili («Anna» e «Amica»), in cui sono emerse moltissime disparità linguistiche relative all’uso del maschile e dei nomi che indicano cariche e professioni. La situazione, ad oggi, non è cambiata un granché; pensiamo inoltre che la stampa italiana non è ancora in grado di evitare palesi errori di misgendering (l’episodio di Caivano, in cui una ragazza di diciotto anni è morta perché il fratello era contrario alla relazione con un uomo trasgender, ne è un chiaro esempio. La maggior parte dei media ha utilizzato espedienti linguistici confusi e errati, rafforzando l’idea dell’esistenza di un solo genere fisso).
Il 23 dicembre 2020 Zanichelli ha pubblicato su Facebook un post legato a un articolo molto interessante, Settanta femminili da ricordare, scatenando non poche polemiche: veniva sottolineato come, nel 1995, un’edizione dello Zingarelli riportasse per la prima volta più di ottocento nomi femminili professionali tradizionalmente indicati al maschile ma che ancora oggi non vengono utilizzati. I commenti erano più o meno tutti uguali: dal «li trovo ridicoli», al «potevamo farne a meno», fino al più classico «suona male», perché per molti il cambiamento linguistico è considerato una sciocchezza.
Molte persone fanno di tale dibattito una vera e propria questione personale, senza pensare alle ricadute sociali e collettive che hanno le nostre parole: «le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale» scrive Cecilia Robustelli. Il genere maschile è prescritto di default: la nostra identità collettiva è intesa come maschile – usiamo “uomo” per descrivere la nostra specie e “umanità” per unirci. La nostra cultura e il nostro linguaggio seguono un quadro generico dove «il pregiudizio maschile è così saldamente radicato nella nostra psiche che parole veramente neutre dal punto di vista del genere (come dottore) vengono lette come maschili».
La lingua riflette e crea le disuguaglianze di genere che esistono nella società, ed è uno strumento fondamentale se vogliamo davvero re-immaginare i nostri difetti di genere e costruire una cultura più socialmente consapevole e inclusiva. Quello che dobbiamo capire è che la lingua ha un suo valore.
Coloro che detengono il potere dettano di fatti il linguaggio: non è un caso che da sempre la donna debba adeguarsi agli usi e costumi di una società che diffida del cambiamento, che non vuole evolversi e odia il diverso soprattutto se questo riguarda ciò che è femminile, che ride quando sente pronunciare la parola “architetta”, che sminuisce una questione “sciocca”, frutto del cosiddetto femminismo new age, che pone estenuante resistenza a un problema che dovrebbe essere ben che superato e crede che questi neologismi (che neologismi non sono, poiché rector/rectrix, ad esempio, esistevano già in latino) siano frutto di un’isteria collettiva e fastidiosa. Le forme linguistiche utilizzate quotidianamente rafforzano le differenze tra uomo e donna, il potere dell’uomo e l’inferiorità della donna.
La lingua è parte di un meccanismo attraverso cui le ideologie implicite sul genere ci vengono inculcate fin dalla nascita: è considerato normale che sia una donna a svolgere il mestiere di infermiera, ma non quello di ingegnera. Nel 2018 Laura Boldrini aveva chiesto di essere chiamata la presidente e non il presidente, esortando colleghi e giornalisti a fare lo stesso. Quel guazzabuglio di commenti che ne era derivato, da parte degli uomini in particolare, è abbastanza demoralizzante. Michela Marzano rispose alla questione scrivendo su «La Repubblica» che «certamente è un punto di partenza per cambiare la realtà, ma siamo sicuri che il problema della parità lo si risolva veramente utilizzando ministra al posto di ministro?».
Questo è un esempio lampante di quanto il problema sia interiorizzato e normalizzato dalla collettività: raramente ci si sofferma a pensare al fatto che la lingua sia una finestra sulle credenze collettive e gli stereotipi che ci definiscono a livello sociale, e al modo in cui ci permette di escludere una determinata categoria, sminuirla e minacciarla. La funzione della lingua è quella di orientarci nella realtà e nel mondo, ma un’impostazione incentrata principalmente sull’uomo svilisce il ruolo della donna penalizzandola e contribuendo a formare degli stereotipi nei confronti del suo ruolo.
Negli ultimi anni, nonostante le continue opposizioni sia all’interno che all’esterno del mondo accademico, le linguiste femministe hanno sensibilizzato notevolmente in merito alla discriminazione attraverso l’uso della lingua, e spinto la società a un valido tentativo di cambiamento. Cecilia Robustelli ha proseguito il lavoro iniziato anni fa da Alma Sabatini, mentre Vera Gheno nel volume Femminili singolari (Effequ, 2019) ci mette di fronte a un interessante quesito: «Se io dicessi che sono un sociolinguista invece che una sociolinguista, ne guadagnerei in serietà professionale?».
La risposta apparentemente è sì, e lo sappiamo tutti. Gheno dedica inoltre l’intero capitolo finale alle repliche e controrepliche collezionate in tutti questi anni di battaglie sui social, nella speranza di fare chiarezza sull’importanza di un lessico più inclusivo, che no, non è stato inventato oggi da femministe capricciose.
Nell’estratto Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana invece, reperibile qui, è possibile trovare soluzioni e alternative ideali presentate sotto forma di lista affiancate da un sì o un no, in cui Alma Sabatini cerca di migliorare la visibilità della donna senza contrastare la struttura della lingua italiana.
Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, disse che «dove c’è diversità è più che legittimo, se non necessario, un cambio di genere grammaticale». Non è possibile raggiungere una soluzione senza passare per la linea difficile del confronto. E questo vale per ogni forma di discriminazione: che si parli di sessismo linguistico o parità di genere, voler raggiungere un traguardo significa sempre accettare di ritrovarci, prima o poi, in posizioni scomode, di educarci alle differenze e aprire una porta culturale nuova. Se vogliamo combattere il sessismo in Italia dobbiamo partire dall’italiano.
di Francesca Fontanesi