Federica Ceccarelli
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

Il sonno come alibi: “Il giorno in cui morì il sole” di Yan Lianke

Il sonno come alibi: “Il giorno in cui morì il sole” di Yan Lianke

Nei romanzi di Yan Lianke il mare compare poche volte. Invece si parla spesso di campagna e di terre incolte. Di altopiani e di catene montuose. Gelide distese desolate avvolte in un silenzio di morte. Sconfinate, senza un inizio e una fine. Puoi camminare tre giorni e tre notti senza riuscire a raggiungere i confini delle sue lande selvagge. Tutti i suoi romanzi sono lunghi e pieni di parole […]. Che tipo, questo zio Yan! Non so perché i suoi romanzi assomiglino tutti a distese di tumuli funerari senza nome. A terre desolate.

Con l’uscita di Il giorno in cui morì il sole, Nottetempo arriva alla sua quarta traduzione dell’autore cinese Yan Lianke, anche questa a opera di Lucia Regola. Avevamo già parlato dell’autore in questo articolo dedicato a Servire il popolo, racconto lungo di stampo satirico che si prende gioco della rigida morale comunista. La satira sociale è presente anche ne Il giorno in cui morì il sole, dove però si fa più sottile.

Facciamo un passo indietro per una doverosa premessa: dei tanti libri pubblicati dall’autore, Il giorno in cui morì il sole è uno dei più recenti (pubblicazione originale del 2015, Taiwan). Purtroppo, molti suoi testi non sono (ancora) stati tradotti in italiano. Il che è un vero peccato, trattandosi di una delle penne più interessanti del panorama asiatico (e non a caso è uno di quei nomi che spuntano fuori ogni anno, in odore di premio Nobel).

Per questo motivo, il lettore dovrebbe fidarsi sulla parola se diciamo che si tratta di un’opera estremamente rappresentativa dello stile e della visione del mondo di Yan Lianke. Ne riassumiamo le caratteristiche fondamentali: il ruolo centrale della natura e il suo rapporto con l’uomo, lo stile a tratti surreale, la venatura satirica che attraversa ogni pagina.

Si tratta di un’opera estremamente cinese, ma con tratti di sperimentalismo che la allontanano dal grosso della narrativa contemporanea del Dragone, maggiormente orientata verso descrizioni realistiche o, al contrario, apertamente fantascientifiche. Se dovessi spiegare l’effetto della prosa di Yan Lianke, direi che è come un calice di vino rosso corposo, bevuto a stomaco vuoto. Riesce a creare una magnifica sensazione di capogiro, fa sì che pagina dopo pagina la nostra mente si avviluppi in un vortice di immagini costruite magistralmente. Il panorama rurale dei Monti Funiu, con i suoi villaggi e le distese di campi, va incontro a una sottile distorsione che ci fa venire progressivamente il capogiro.

In una notte afosa e rovente – e, fidatevi, in Cina il caldo sa essere terribilmente feroce – il quattordicenne Li Niannian inizia a notare uno strano fenomeno collettivo: uno dopo l’altro, gli abitanti che si addormentano diventano sonnambuli. Dapprima un tale Zio Zhang, poi pian piano tutti gli abitanti del villaggio. Le conseguenze di questo avvenimento di massa non tardano a manifestarsi; approfittando del sonno altrui, quelli che sono ancora svegli si intrufolano nelle botteghe dei commercianti per derubarli.

Abbandonate le regole e le inibizioni proprie dello stato di veglia, i dormienti iniziano a dare sfogo ai propri istinti più reconditi, causando una vera e propria ondata di omicidi e violenze. La famiglia di Li Niannian è tormentata dal timore che qualcuno possa razziare il loro negozio di articoli funerari o uccidere il padre, odiato dai compaesani per questioni legate alle usanze funebri. Insomma, lo scenario si fa decisamente drammatico a mano a mano che tutti gli abitanti cadono in preda al sonnambulismo. Alla fine, solo Li Niannian riuscirà a sfuggire a questo delirio collettivo.

Oltre alla trama inquietante e alla narrazione avvincente, Yan Lianke mette su carta una prospettiva spaventosa sulla realtà della Cina e del mondo. In una dimensione in cui ogni forma di disciplina (mi viene in mente soprattutto quella rivoluzionaria, con il suo connotato ideologico e la sua portata morale) viene messa a tacere, l’essere umano può dare sfogo ai suoi istinti più animaleschi. I desideri carnali, tra cui spiccano il possesso e la vendetta, prendono il sopravvento e portano alla rovina della comunità.

Al di là dell’elemento critico e dei suoi bersagli, vorrei soffermarmi un attimo sulla bellezza della scrittura di Yan. Personalmente, la caratteristica che più mi entusiasma della sua prosa è la capacità di descrivere la Cina rurale, evocandola con una potenza immaginifica che trovo a dir poco meravigliosa:

Alzando lo sguardo al cielo, si vedeva un velo di nebbia ondeggiare nell’aria contro il biancore indistinto della sera. Guardando più attentamente si riusciva a scorgere la luce delle stelle che facevano capolino in mezzo alla nebbia come lucciole in una notte d’estate. Il negozio del barbiere e la bottega del droghiere. Il negozio di articoli vari e il ferramenta. Il negozio di vestiti, privato, e quello di elettrodomestici, statale. Tutti gli esercizi sulla Strada Orientale del paese avevano porte e vetrine sbarrate.

Le frasi si specchiano l’una nell’altra, con frequenti ripetizioni che hanno un sapore tipicamente cinese. la scrittura è avvincente ma mai sregolata, come una danza perfetta. Yan Lianke fa di sé stesso un personaggio del proprio stesso romanzo, giocando con la propria scrittura come solo i mostri sacri possono fare. Non è un caso che sia oggi considerato tra i giganti della letteratura. Resto convinta che nessun altro autore sappia sprigionare l’atmosfera della Cina, che a me ha sempre dato un senso di ebbrezza, con tale potenza immaginifica. Ripenso soprattutto a Il sogno del villaggio dei Ding (anche questo edito da Nottetempo), uno dei libri più belli che mi siano mai passati tra le mani, in cui Yan Lianke racconta un’epidemia di aids, sprigionando dettagli che nessun altro al mondo avrebbe saputo evocare.

Il mondo dei monti Funiu scivola dalla calma placida e appiccicosa di una notte estiva alla distorsione più totale, rivestendosi di una tinta grottesca, quasi gogoliana, che risulta profondamente inquietante. La fluidità della penna di Yan mescola le carte in tavola, creando confusione su ciò che sono rispettivamente il sonno e la veglia (temi cari alla tradizione letteraria dell’Asia, ben da prima che Calderón de la Barca scrivesse La vida es sueño) e suscitando un senso di ansietà che non assume mai i toni del melodramma. Sullo sfondo ancora la natura, ultima grande regolatrice della vita umana; se esiste un giorno fatale per il mondo, lo si può riconoscere dal venir meno della legge naturale secondo cui ogni mattina il sole è chiamato a sorgere sui monti Funiu.

La madre gli si era messa di fronte: «Lianke! Lianke!» Aveva gridato, come per destarlo dalle sue visioni.

«Mica hai visto quel libro dalla copertina nera? Quello che pare avere una notte nera disegnata sulla copertina, come dici tu?»

La madre gli si era avvicinata e lo aveva scosso per le spalle: «Ma non ci pensi che scrivere libri finirà per ucciderti?»