Susanna Ralaima
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Il vecchio figlio” di Luciano Allamprese

“Il vecchio figlio” di Luciano Allamprese

Nel 1989, Giovanni Mariotti iniziava la sua recensione a Strane conversazioni con le donne (Mondadori), esordio di Luciano Allamprese, chiamando in causa l’origine della narrazione secondo Benjamin, che poneva da una parte il contadino radicato alla storia e alla tradizione della sua terra, dall’altra il viaggiatore che scopriva mondi diversi e lontani: sulle pagine del «Corriere della Sera» Mariotti affermava però che Allamprese non apparteneva in sostanza né all’uno né all’altro gruppo.

Per Il vecchio figlio (Atlantide edizioni, 2022) non si può che concordare con Mariotti, o forse si può ribaltare quanto scrive e affermare che lo scrittore appartiene simultaneamente a entrambe le schiere: la narrazione fa pensare infatti a quella di un mercante che dopo aver girovagato per il mondo torna a casa per ricongiungersi alle sue radici, mai veramente abbandonate. È un romanzo, questo, che racchiude allo stesso tempo una spinta centrifuga e centripeta, che si costruisce sul moto e sulla stasi, attraversato da una serie di contrari come l’odio e l’amore, l’ammirazione più cieca e il biasimo sordo; un romanzo che pur dipanandosi per un’intera vita sembra quasi non muoversi di mezzo metro.

A causa della perdita della madre il protagonista torna a casa dopo un’assenza lunga nove anni e rientra nell’orbita ingombrante e stentorea del padre, il Capitan Ballaruccio. Da qui incomincia la narrazione.

Dal funesto rimpatrio prende avvio quindi un viaggio a ritroso tra i ricordi d’infanzia e le abitudini a tratti ridicole del genitore. Un’immersione nel passato del protagonista, dominato da un padre che parla con gli infiniti durante le passeggiate, come in un continuo scandire ordini, e nell’attraversare un ponte che congiunge il loro quartiere al centro città sentenzia comandi anche contraddittori, a cui non si può controbattere: «Mantenere forte il cappello. Coprirsi le orecchie. Le mani, in tasca».

Un padre che veicola la sua parsimonia e il suo equilibrio anche tramite i suffissi diminutivi – dai formati di pasta (spaghettini e capellini) e il brodino allo stare solo benino. Un padre che inventa parole, sorveglia e gestisce la salute dei figli in un lessico familiare quasi commovente nella sua astrusità.

Il narratore è il primogenito, e pertanto è quello che, in un’idolatria completa, viene fin dall’inizio investito dalla travolgente onda della personalità paterna, quello che crescendo combatte maggiormente contro i suoi flutti e quello che, in modo inesorabile, se ne lascia trasportare più di ogni altro componente della famiglia. Un Telemaco in attesa e un Edipo sottinteso coabitano nel figlio narratore di questo romanzo a lungo meditato: la sua identità individuale si costruisce paradossalmente in un’emulazione del padre che, in linea con l’originario etimo latino, racchiude in sé una dichiarata rivalità, un tentativo di sfida.

La figura del Capitan Ballaruccio, che incombe e si staglia nella vita del giovane e nel corso della lettura, è pesante, fastidiosa, invadente, persino mediocre, ma rivela di tanto in tanto lati inediti e più teneri. Questi si intravedono per esempio nel momento in cui si comporta come un qualsiasi padre e, per annullare la distanza che il figlio mette testardamente tra loro, scrive una serie di lettere dal padre, per provare a instaurare un dialogo da lontano, per raggiungerlo con i suoi consigli non richiesti e le sue prediche. Per quanto si tratti di missive scritte in uno stile burocratizzante e militaresco, che sembra lasciare poco spazio ai sentimenti e all’affetto (che pure, in alcuni momenti, scivola tra le parole e si insinua tra le crepe di una relazione a dir poco complessa).

L’inusuale caratteristica di queste lettere è che ognuna avrebbe potuto essere il calco della precedente o della successiva; differivano per un avvenimento menzionato in una e ignorato nell’altra, ma la trama generale non subì mutamenti negli anni giacché mio padre non avrebbe permesso mai che si discostassero da quella finalità parenetica e educativa per cui erano state concepite, scritte e spedite. I suoi consigli, suggerimenti e divieti non trascuravano uno solo degli aspetti della condizione umana. Ad ammonimenti di ordine generale ricalcati sul topos del tempus fugitRicorda che i genitori non sono eterni… Quel che si perduto non si recupera più – mio padre alternava indicazioni che avrebbero regolato la mia vita in ogni genere di situazione.

Un rapporto a corrente alternata quindi, poi ulteriormente complicato dall’ingresso nell’equazione della variabile Serena, la moglie del narratore, disprezzata dal padre, prevenuto nei confronti di «una signora che ha già ripudiato il marito».

La vita coniugale dei due è involuta, malsana, anche asfissiante per il lettore. «Salute e malattia, s’affretta a distinguere la mente, / salute e malattia, ripete / fin quando non combacino le parti / di questa conoscenza avuta a sprazzi nel buio», scriveva Mario Luzi nella sua Tra le cliniche. Sono versi che sembrano descrivere perfettamente l’evolversi del matrimonio tra la voce narrante e Serena – un’eccezione lampante del latino nomen omen. Mi sono servita di una citazione poetica per cercare di rendere il terribile rapporto di coppia perché credo che il protagonista avrebbe apprezzato. Spinto infatti dalla forza dell’abitudine del suo lavoro come bibliotecario, spesso il narratore in questo suo “diario di bordo” si lascia andare a citazioni nei dialoghi e nella sua diegesi, sempre portata avanti con una sottile e scanzonata ironia. Pure il prologo, così come le tre macrosezioni che compongono il romanzo (Un cattivo padre, Una cattiva moglie e Un cattivo figlio) sono introdotti da citazioni – rispettivamente di Berto; O’ Connoll; Pavese e Chamfort. Forse però si sente la mancanza di un capitolo intitolato Un cattivo marito e magari quei versi di Luzi avrebbero potuto rappresentarne il perfetto esergo.

Nel corso della lettura, tra litigi furiosi, perifrasi inusuali, promemoria lasciati in bella vista sarà chiaro che al protagonista non è bastato andar via di casa, mettere una serie di chilometri di distanza dalla figura paterna, farsi una famiglia diversa e oppositiva per emanciparsi davvero dall’influenza del padre e che certe volte ataviche non sono solo le colpe, ma i tic, gli atteggiamenti, e pure la capacità di nascondere e ancor più di dimostrare l’amore.

Lo capisci che sei uguale a lui?