Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Recensioni

Il viaggio dell’Americanah

di Chimamanda Ngozi Adichie

Il viaggio dell’Americanah

Americanah, romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, viene pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2013 e compare in Italia nel 2014, edito da Einaudi. Adichie, classe 1977, scrittrice e icona del movimento femminista intersezionale, è la musa ispiratrice della linea di t-shirt di Dior “We should all be feminist”, ideata dalla stilista e direttrice creativa del marchio, Maria Grazia Chiuri.

Adichie pronuncia l’emblematica frase durante un TED Talks, il TEDxEuston, che, su YouTube, ha conquistato più di sei milioni di visualizzazioni. Trascritto, è diventato un manifesto della terza ondata femminista (e saggio edito da Einaudi). Una parte dello stesso discorso è stato inserito da Beyoncé alla fine di un suo brano, ***Flawless: scelta criticata, soprattutto in ragione dell’assenza di etica con cui la cantante tratta la manodopera che lavora al suo merchandising, ma dall’indiscusso impatto nella coscienza statunitense e occidentale.

Americanah, autobiografico e potente, è un esempio magistrale di letteratura della diaspora: narra la storia di Ifemelu, ragazza nigeriana, nata e cresciuta a Lagos ma emigrata giovanissima a Princeton, New Jersey, per frequentare il college (esattamente come Adichie). Ifemelu è costretta ad abbandonare la Nigeria perché l’università è impraticabile a causa degli scioperi del corpo docente contro i tagli imposti dal governo militare. Seguiamo i ricordi della donna, che scruta da lontano la ragazza che era: dopo tredici anni negli Stati Uniti, dopo aver tentato di edificare da zero un’altra vita e di costruirsi una diversa identità, Ifemelu torna a casa.

Ha, però, lasciato delle tracce dietro di sé, come Razzabuglio. Questo blog ha scatenato un successo tale da essere riconosciuto persino dall’irraggiungibile ambiente accademico statunitense. Grazie a Razzabuglio, inizialmente nascosta da un’identità fittizia, Ifemelu si sente libera di descrivere le difficoltà derivanti dall’essere una diversa nella patria del conforme. Dunque sceglie di tornare a casa, ma l’unico risultato è quello di sentirsi altrettanto diversa. Torna per essere chiamata, con sospetto e un acre connubio di invidia e ammirazione, l’“americanah”, quella che non può più tornare indietro dal viaggio che ha intrapreso, neanche volendolo.

Ifemelu cerca di comprendere chi sia realmente; la sua è un’inesausta ricerca della propria identità, a metà fra quello che lasciato e quello che ha tentato di diventare. Imparerà a adeguarsi al contesto in cui vive, tenterà di dimenticare da dove viene, eppure non smetterà mai di rimpiangersi, di ricercare le proprie radici.

Adichie narra con precisione quasi dolorosa l’inadeguatezza dell’immigrato, il dolore lancinante che si avverte quando si recidono le radici con un colpo secco, di una casa lontana, quasi distrutta nella memoria, altrimenti sarebbe impossibile costruirsene un’altra. Ifemelu brucia di voglia di rivalsa, cosciente delle sue capacità, ma quel desiderio dilaniante da solo non basta. Perché la chiave per essere accettata è che non si pensi mai che ciò che ha ottenuto le sia stato regalato in virtù della sua identità migrante. Dovrà sempre dimostrare, sia agli altri che a sé stessa, di meritare più di tutti gli altri, lavorando e studiando il doppio rispetto a loro. Ifemelu sa cosa si prova a sentirsi diversa, perché così è sempre stata trattata: donna, straniera, immigrata, è l’esempio perfetto di chi dovrebbe tenere la testa bassa pur di essere accettata, ma non ha nessuna ragione per rinunciare alle proprie ambizioni.

Fin qui, Americanah si presenta come un romanzo universale, che parla a quella parte di inadeguatezza che ognuno di noi cova dentro di sé. Tutti ci siamo sentiti a disagio quando hanno additato il nostro corpo come non conforme o il nostro accento in quanto provinciale. Ma il fulgore di quest’opera è nel non risparmiarsi mai nello sviscerare chirurgicamente cosa vuol dire subire discriminazione.

Americanah potrebbe definirsi il romanzo della differenza per eccellenza, dato che la analizza in ogni campo, persino in quello linguistico: la Nigeria, infatti, fa parte del Commonwealth of Nations e l’inglese che si parla è una commistione fra la lingua inglese e le lingue della Nigeria sud-occidentale e sud-orientale, lo yoruba e l’igbo. La protagonista, poi, non proviene da una classe sociale bassa, anzi. Ifemelu vive a stretto contatto con la classe colta ed è in grado di testimoniare i continui cambi di registro linguistico, dando alla narrazione un tono ancora più autentico.

Il romanzo oltrepassa i confini classici di narrazione africana alla quale siamo abituati. Il racconto dell’Africa che conosciamo è una fotografia, una cartolina di un Paese lontano e selvaggio. Americanah, finalmente, stravolge questo topos letterario, perché dà voce agli abitanti, agli autoctoni dell’Africa, della Nigeria.

Adichie infatti rimuove il filtro occidentale applicato al racconto dell’altro, sottolineando l’importanza dell’autorappresentazione. Rappresentazione sia del corpo nero, da parte di una donna nera che non si vede mai ritratta dall’iconografia occidentale, sia di quello femminile, che non è mai libero di essere; la società, invece, è autorizzata a sottolineare l’inadeguatezza di quel corpo, perché non appartiene a chi lo vive, ma a chi lo guarda.

La formazione femminista di Adichie è evidente nella scelta di mettere continuamente in discussione tutte le certezze che consolidano l’immaginario bianco dell’identità nera. Ci mette davanti all’evidenza, ci costringe ad affrontare le nostre responsabilità. Siamo tutti colpevoli (lo è ognuno di noi) dei micro-conflitti che la comunità nera è costretta a subire ogni giorno, specialmente quando si trova a vivere negli Stati Uniti oppure in Europa. Ifemelu-Adichie si sofferma nella descrizione del trauma che è per una donna nera il rapporto con i propri capelli, ad esempio.

Non per accettarsi, ma per sentirsi accettata, una donna nera che vive fra la società occidentale, deve adeguarsi ai canoni estetici che le vengono proposti o imposti. Ciò significa che la sua immagine deve essere quanto più possibile conforme a quella stereotipata del modello femminile occidentale, che rinnega un elemento identitario fondamentale per le donne nere, come i capelli afro. La donna è quindi costretta a domare i propri capelli a tutti i costi, per ottenere il privilegio dell’accettazione sociale.

Di Ifemelu sorprende la schietta sincerità, lo sguardo pulito e sorpreso dalla stessa società del perbenismo e del moralismo che Philip Roth aveva smascherato in La macchia umana: Ifemelu chiama le cose con il proprio nome, non ha paura di riconoscere la società statunitense come intrinsecamente razzista.

La protagonista deve affrontare questo stesso staccamento continuo, la stessa sensazione di essere spaccata fra due realtà opposte, ma complementari, fra cui non riesce a decidere, quando deve scegliere fra Obinze, l’amore adolescenziale, il compagno con cui ha condiviso le stesse paure e le stesse ambizioni, che avrebbe dovuto seguirla dalla Nigeria agli Stati Uniti, e tutti gli amori che ha incontrato da adulta. Sono proprio gli occhi di Obinze a mostrarci la realtà della Gran Bretagna, dove, pur di lavorare, è costretto a ricorrere al numero di assicurazione di altri immigrati dotati di regolare permesso di soggiorno. Ciò vuol dire cedere loro più del 40% del proprio esiguo stipendio. Ciò vuol dire povertà.

Leggere Americanah, forse oggi più che nel 2013, è un’ottima iniziazione alla rieducazione autonoma nei confronti del razzismo per gli occidentali. È nostro dovere riconoscere le lacune evidenti nella nostra preparazione, ciò che la nostra educazione ha tralasciato di curare, le voragini culturali che sperimentiamo nei confronti del razzismo interiorizzato. Dobbiamo riconoscere le nostre dimenticanze, ammetterle. Dobbiamo chiedere perdono alle persone a cui abbiamo provocato dolore. Non possiamo più nasconderci dietro lo scudo dell’ignoranza. La responsabilità di capire cosa sia il razzismo, cosa siano i microtraumi, cosa sia la sofferenza, non è della comunità nera, ma nostra. Il regalo che Chimamanda Ngozi Adichie ci ha fatto è immenso: è l’opportunità di spiare ciò che abbiamo causato, di imparare e di rimediare.

Il regalo che Chimamanda ci ha fatto è Americanah.

di Letizia Marra