Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Interviste

Intervista a Luca Giordano – “Qui non crescono i fiori”

Intervista a Luca Giordano – “Qui non crescono i fiori”

Qui non crescono i fiori (TerraRossa edizioni, 2021) racconta la sopravvivenza, la vita che deve continuare. Leggendo la storia di Mario e dei suoi figli si acquisisce pagina dopo pagina la consapevolezza di avere davanti un terreno arido dove non cresce più nulla perché è stato calpestato per troppo tempo. Non c’è perdono, non c’è rinascita ma soltanto senso di colpa che annienta e blocca a mezz’aria le carezze di un padre che non sa comunicare. La forza del racconto, infatti, si nasconde nelle parole taciute, nei non detti che diventano indizi da mettere insieme e valgono più di una verità urlata. La stessa verità che arriva dal passato si alterna al presente con discrezione e svela chi era Mario prima: prima dei suoi figli e della perdita di Alice, quando ancora si radeva i baffi e beveva Coca-Cola.

Quando era piccolo, Salvatore non riusciva a sopportare che Damiano catturasse le lucertole e staccasse loro la coda per stare lì a guardarla mentre si muoveva di vita propria. Non capiva perché si divertisse così tanto e non gli sembrava così strano, era convinto che anche agli uomini succedesse una cosa simile.

Damiano e Salvatore sono fratelli non alleati: hanno entrambi perso la madre, eppure continuano a muoversi come code di lucertola recise, scalpitano per farsi spazio e ribadire la loro diversità. I loro scambi sono sempre animati da un antagonismo radicato che li fa continuamente scattare, e li conduce a scontri che Mario non è capace di mediare senza alzare la voce e incolpare Damiano. Proprio per questo non è in casa che Salvatore trova comprensione, ma altrove. È in mezzo alle macerie della sua famiglia che, senza saperlo, imparerà ad affezionarsi e dare amore proprio dove il legame dei suoi genitori si era spezzato tanto tempo prima.


Martina Madia: Qui non crescono i fiori, suo romanzo d’esordio, è stato pubblicato per la prima volta per ISBN (2013) e oggi torna in libreria grazie a TerraRossa. A distanza di otto anni crede che il pubblico accoglierà diversamente il suo lavoro?

Luca Giordano: Se per “pubblico” intendiamo la fortuna editoriale e il numero di vendite spererei vivamente che lo accolga meglio. Allora, nel pieno della caccia agli esordienti trainata da anni da Paolo Giordano (detto anche il Giordano bravo: Paolo, la mia è tutta invidia e stima!) e in una crisi maestosa per ISBN culminata con il fallimento, il romanzo non ebbe la fortuna che speravo. Sarei ipocrita a dire il contrario. Qualche sassolino però se l’è tolto. Ha vinto il Premier Roman de Chambery, io son stato selezionato per Scritture Giovani nel 2014 dal Festivaletterature di Mantova, e ho fatto un bel tour di presentazioni in Germania in otto città grazie a Francesca Bravi e alla sua invenzione. Dove ha trovato lettori, insomma, posso dire che il pubblico ha accolto i fiori benissimo. È un romanzo che si fa leggere, che magari stordisce qualche lettore, che non sembra lasci indifferenti quelli che arrivano all’ultima pagina. Quindi, ecco, da questo punto di vista spero continui ad avere la stessa accoglienza e gli stessi ottimi lettori.

La storia di questa famiglia è ambientata su un’isola che, pur non essendo mai nominata, è resa riconoscibile dalle descrizioni: arida, deserta e nota per lo sbarco dei migranti più che per le sue bellezze. Cosa l’ha spinta a scegliere proprio Lampedusa come luogo del suo racconto?

LG: Nelle varie riscritture l’ambientazione è cambiata tantissime volte. La primissima idea – credo fosse il 2008 – era ambientata nelle montagne del cuneese, poi in Sardegna, poi in isole sempre più piccole. Poi, visto che lo spunto è nato da un fatto cronaca vera avvenuto in Sicilia, ho immaginato che una delle sue isole potesse essere perfetta. Per la grandezza e per la conformazione geografica, per essere più di altre realmente in mezzo al nulla, Lampedusa era l’isola che faceva per me. E, pur non essendoci mai stato, in quegli anni viaggiavo parecchio, così per descriverla al meglio mi son fatto aiutare da tutte le sensazioni, gli odori, i paesaggi del deserto messicano e di quello australiano. Ho trasportato lì alcune di queste sensazioni e ho tolto il nome all’Isola, perché in fondo penso che una storia di questo tipo sia più universale di quanto sembri.

Il personaggio del padre è difficile e complesso: rude nei modi e nelle parole, riserva ai due figli un trattamento diverso. Mario, infatti, preserva Salvatore ma bistratta Damiano: da cosa nasce questa disparità che causa un continuo conflitto tra i due fratelli? Di quale colpa non detta si è macchiato agli occhi del padre il primogenito?

A me interessa il peso delle cose nascoste, delle cose non dette. Sono fermamente convinto che i segreti in una famiglia prima o poi vengano a galla e, quando lo fanno, la bomba deflagra e lo fa nel peggiore dei modi. Damiano sa qualcosa di questo segreto, Salvatore ne è totalmente all’oscuro e per questo il padre cerca di preservarlo, di salvarlo in qualche modo. Lo fa probabilmente nel modo sbagliato e infatti questa disparità di trattamento alimenta un’insofferenza tra i due fratelli che proprio nell’estate in cui è ambientato il romanzo sarà fatale. Non so se sia una colpa quella di Damiano ma il padre l’ha resa tale. È lui, in realtà, il portatore di un altro dei temi su cui baso gran parte delle mie storie, ovvero quanto sia insopportabile a volte il peso dei sensi di colpa. Mario se li porta addosso, sa di aver sbagliato, e ne patisce. Arriva a ferirsi per i sensi di colpa.

Anche per questo, andando a fondo nella lettura del suo personaggio, credo sia molto più umano di quello che viene fuori.

Lo stile del romanzo è molto asciutto e cinematografico: frasi brevi, flashback che si inseriscono alla perfezione tra i vari capitoli, descrizioni accurate che si focalizzano sui particolari. Il suo lavoro di sceneggiatore influenza il suo modo di scrivere, oppure è una scelta circoscritta a questo romanzo? E a tal proposito, sta lavorando a qualcosa di nuovo?

Influenza sicuramente e quando ho provato a non scrivere con lo stesso ritmo, quasi per montaggio, i risultati sono stati evidenti. Credo di essere abbastanza bravo, anche se non sta a me dirlo, a far entrare il lettore direttamente nei luoghi in cui avvengono le storie e quindi in questo senso sicuramente la professione aiuta. Per quanto riguarda i progetti, come ho scritto nella prefazione de i fiori, ho lottato sei anni per il secondo romanzo capendo che era meglio metterlo in un cassetto. Ho avuto la presunzione che qualcuno potesse essere interessato a una mia storia personale e, nel frattempo, diciamo che ho avuto qualche intoppo dal punto di vista sentimentale, familiare, lavorativo. Mandando un po’ tutto all’aria ne ha influito sicuramente la storia che stavo scrivendo, lo stile, il ritmo. Per ora quella storia lì è in coma farmacologico, poi chissà.  Forse è un coma che potrebbe durare in eterno. Ho un’altra storia che sarebbe perfetta per un romanzo ma prima di mettermi a testa bassa sul computer vorrei capire di avere davvero tutto sotto controllo. Detto questo, scrivo per il cinema e la televisione, cose diversissime per genere, cose addirittura divertenti e che – so che può sembrare assurdo – finiscono persino bene.

di Martina Madia