Culturificio
pubblicato 5 anni fa in Interviste

Intervista a Vanni Santoni

Intervista a Vanni Santoni

Vanni Santoni, scrittore nato a Montevarchi nel settembre del ‘78, non ha forse bisogno di presentazioni.

Dal 2004 ha saputo muoversi tra riviste e concorsi di scrittura, inanellando poi una serie di pubblicazioni e lavori (tra fantasy e libricini sui ragni, romanzi reportage e scritture che ricordano Perec) che lo hanno portato a essere una delle voci più ascoltate nel panorama culturale italiano contemporaneo. Tutte le sue esperienze di narrativa sono state affiancate nel tempo da una continua attività giornalistica (scrive sul Corriere della Sera e il rispettivo Corriere Fiorentino, collabora con Linus, minima&moralia, Internazionale, solo per citarne alcuni) e un interesse dinamico per l’attualità.

Noi del Culturificio lo abbiamo incontrato davanti a una birra, abbiamo parlato – con un’inflessione rigorosamente toscana – del suo nuovo romanzo, I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019), della narrativa italiana contemporanea e dei suoi progetti passati e futuri.

I fratelli Michelangelo è un romanzo imponente, di ben seicento pagine. Ci racconti un po’ la genesi, la crescita e le tempistiche di questa vera e propria epopea familiare?

Le prime scene sono state scritte nel 2012, quindi sette anni fa. Partii da immagini scollegate tra loro, come sempre accade quando faccio un romanzo “puro”. In una, mi figurai un tizio che andava a trovare un amico nel carcere di un paese in via di sviluppo, e scopriva che gli avevano rotto tutti i denti. In un’altra c’era un ragazzo che guardava la propria biblioteca e trascriveva tutti i titoli, ripensando a come e quando aveva letto ciascun libro. Nella terza c’era una dottoressa di un certo rango che a fine giornata diceva alla caposala di non disturbarla, si metteva sul lettino e si faceva un’inframuscolo con la ketamina dell’ospedale. La prima scena è diventata l’attacco della parte di Louis Michelangelo; la seconda la ritroviamo, molto cambiata (in quella primissima bozza i libri elencati erano i miei, poi sono diventati quelli più adatti ai gusti e all’indole del personaggio, nonché una summa dei libri citati nel romanzo, come spiego nella nota finale) nella parte di Enrico; dalla terza scena è nata la figura di Aurelia Michelangelo, che infatti è primario, solo che poi la più anziana sorella Michelangelo ha preso una forma e un carattere che la rendevano incompatibile con un simile gesto, e infatti la scena è scomparsa molto presto. A quei tempi non esisteva ancora la figura di Antonio Michelangelo, e anche Cristiana e Rudra erano solo ombre, per quanto sarebbero nati, in embrione, sempre quell’anno, assieme all’idea di ricollegarmi – oltre che ai grandi modelli ottocenteschi, come racconto qui – al filone familiare dei Karamazov, dei Tanner, dei Buddenbrook e di Cent’anni di solitudine (ma volendo anche a quello di un cinema che va dal Visconti di Rocco e i suoi fratelli ai Tenenenbaum, passando per Il grande freddo, che anche se riguarda un gruppo di amici ha al centro i temi del ritorno e del confronto), e quindi di fare di costoro cinque fratelli. Nel 2013 e 2014 sono stato impegnato col progetto Terra ignota, e subito dopo con Muro di casse per Laterza, così ho ripreso i Fratelli solo nel 2015, un anno di lavoro pieno sul libro in cui hanno preso forma definitiva anche Cristiana, l’aspirante artista, e Rudra, l’ex promessa del karate con un’indole mistica – ed è comparso, come in negativo, anche il padre Antonio Michelangelo, assieme alle sue molte donne. Lì il romanzo o meglio l’idea che avevo del romanzo ha cominciato ad assumere la fisionomia che ha oggi. Nel 2016 ho scritto La stanza profonda e poi, in scia, fino all’inizio del 2017, L’impero del sogno. A quel punto mi sono ributtato – letteralmente: da quel momento ci ho lavorato giorno e notte – sui Fratelli Michelangelo e in altri due anni l’ho completato. Si tratta dunque sì di un arco di lavoro di sette anni ma di quattro anni effettivi di piena applicazione.

Vasilij Grossman afferma che la principale responsabilità di uno scrittore è plasmare i personaggi. Come ti sei approcciato alla scrittura di Aurelia, Louis, Cristiana, Rudra ed Enrico? Hai un “figlio preferito”?

Sono tutti figli – e nipoti, visto che sono anche il babbo di Antonio Michelangelo – miei, quindi non ho preferenze, voglio molto bene a tutti loro. Ammetto di avere un debole per alcuni comprimari, come Alejandro Jelinek, Parvati & Spyros, Liza Greco, Tartagliana… – e anch’io, come del resto Antonio ed Enrico, sono un po’ innamorato di Nicoletta.

Per quanto riguarda la scrittura, l’esigenza principale era trovare la voce – e ancor più che la voce, la Weltanschaaung – di ciascuno, e la loro coagulazione come personaggi coincide con l’ordine in cui si incontrano nel libro, sebbene quell’ordine derivi da altre riflessioni (un “movimento” di avvicinamento al padre, da chi neanche lo conosce fino a chi non ha particolari attriti con lui; lo schema dei quattro purushartha, le quattro vie vediche alla realizzazione; una progressione del narrato – di Enrico si raccontano gli ultimi giorni, di Louis gli ultimi mesi, di Cristiana gli ultimi anni, di Rudra tutta la vita; etc.). Credo poi che l’ordine derivi anche dal loro “genere narrativo”: pur intersecandosi e concatenandosi, la parte di Enrico è (anche) una sorta di romanzo di formazione sentimentale; quella di Louis un’avventura picaresca; quella di Cristiana quasi un trattato sull’arte contemporanea nascosto dentro una vicenda di ambizioni frustrate e ricerca di un’identità; quello di Rudra un racconto mitologico/sapienziale (per quanto fatto di eventi ordinarî).

Antonio Michelangelo appare all’inizio del romanzo, per poi scomparire dalla narrazione per moltissime pagine, rimanendo evocato solo nelle parole degli altri o nelle lunghe digressioni. I protagonisti sono infatti i figli, e il pater familias ritorna in scena solamente verso la fine. Si può leggere questa tua scelta come una rappresentazione di quello che è stato Antonio Michelangelo per i suoi figli, ovvero una presenza quasi ingombrante, incombente per via della sua personalità e della sua fama, ma fondamentalmente assente nelle loro vite?

Sicuramente c’è questo elemento, del resto la caratteristica di Antonio Michelangelo è proprio quella di incombere: dalla torretta di Villa Fortuna su Vallombrosa, dal piano di sopra quando i figli sono nella villa, e storicamente sulle biografie delle ex-mogli, dei figli e dei conoscenti, ma c’entra anche il fatto che Antonio Michelangelo, l’istrione, il camaleonte, il padre-idra e padre-simbolo (di molte cose: c’è chi, come Rialti sul Foglio, ci ha visto il Novecento stesso, e chi, come Paloscia su Repubblica, il modello del romanzo ottocentesco), doveva “prendere forma da solo” in controluce, attraverso gli sguardi e i racconti (o i non detti) degli altri, secondo una tecnica mutuata da Faulkner, e così è stato. Anche quando entra in scena (accade tre volte: all’inizio, alla metà esatta del libro e sul finale) lo fa con un racconto di sé che potrebbe benissimo essere inaffidabile se non proprio mendace.

Aurelia Michelangelo, la prima figlia di Antonio, non accorre invece alla riunione istrionesca del padre. È una donna realizzata sia dal punto di vista personale che professionale, che conosce veramente il padre. È riuscita a far “evaporare il padre” (per dirla con Lacan) proprio perché non ha più bisogno, a differenza degli altri fratelli, di una figura che sia in grado di darle un riconoscimento, una garanzia, un fondamento? 

Sì, esatto. Aurelia nei primissimi progetti doveva avere una sua “parte”, ma ben presto è stato chiaro che lei, classe ’55, figlia di primo letto di Antonio e oggi primario al San Raffaele, non sarebbe mai andata a Vallombrosa, perché ha già preso le misure di quell’uomo. Gli altri invece, nati tra il ’70 e l’81, hanno tutti almeno una buona ragione per andare, non necessariamente di riconoscimento: c’è chi spera in un’eredità, chi vuole prendere il padre per il collo, chi semplicemente conoscerlo dato che non l’ha mai visto – anzi, neanche sapeva di esser figlio suo.

Il romanzo è profondamente internazionale perché ha come sfondo una serie di posti, sparsi tra l’Europa e gli altri continenti. Che rapporti hai con questi luoghi e quali senti più tuoi?

I fratelli Michelangelo ha il suo fulcro a Vallombrosa-Saltino, sugli Appennini Toscani, ma si svolge a Tel Aviv, Viareggio, Roma, nel Valdarno, a Bali, a Giacarta, nell’Himachal Pradesh, a Nuova Delhi, Milano, Parigi, Berlino, Londra, Stoccolma e tanti altri luoghi, ed è anche un romanzo che include tante lingue: il francese fin dalla prima pagina, secondo la lezione di Tolstoj, poi l’inglese, lo spagnolo, il tedesco, l’ebraico, l’hindi, l’indonesiano… è venuto tutto naturale, ma in prospettiva credo che fosse inevitabile: in un’epoca di piena globalizzazione delle influenze non si può più parlare di grandi romanzi nazionali, un’opera che abbia  l’ambizione di raccontare davvero la contemporaneità non può non farsi transnazionale. In questo caso, come ha notato Chiara Fenoglio sul Corriere, questa “esplosione” dei fratelli in giro per il mondo, serve anche per innescare un movimento centripeto – centro-periferia – e centrifugo – periferia-centro – rispetto al fulcro di Vallombrosa.
In generale io, anche quando faccio pura fiction, parto sempre da luoghi che conosco, e infatti ho passato periodi anche lunghi in questi luoghi. Tra di essi, poi, c’è appunto Vallombrosa, che al di là del suo rilievo simbolico (l’Abbazia fu un centro chiave della cristianità, poi decaduto; Vallombrosa fu cantata da tantissimi poeti, specie romantici, per tacere del fatto che John Milton, a cui I fratelli Michelangelo deve l’epigrafe, scrisse una parte del Paradiso perduto proprio lì; il Saltino fu una località turistica prestigiosissima ai primi del novecento, essa pure decaduta) è per me un luogo fondamentale, ci ho passato una parte consistente dell’infanzia e ho sempre avuto un rapporto viscerale con quella foresta e quei vecchi alberghi abbandonati o semi-abbandonati.

Nel 2007 hai ideato insieme a Gregorio Magini il progetto SIC (Scrittura Industriale Collettiva), che ha portato al romanzo scritto a duecentotrenta mani In territorio nemico (minimum fax, 2013). Come è nata questa idea di scrittura collettiva in tutte le fasi? Credi che i fratelli Michelangelo riuscirebbero a scrivere insieme una biografia di Antonio Michelangelo?

Per la storia e lo sviluppo del progetto SIC, prima, e di In territorio nemico, poi, rimando, onde evitare semplificazioni a questi pezzi – 1. 2. 3. 4. – e al resto dei materiali reperibili sul nostro sito, che ne parlano in modo esaustivo.
Per quanto riguarda invece I fratelli Michelangelo, è chiaro che la figura di Antonio viene tratteggiata attraverso le vicende di tutti; inoltre, leggendo il libro in chiave metatestuale (c’è un indizio negli epiloghi e un altro nel “tu” usato per Rudra), esso potrebbe essere stato scritto proprio da Enrico Michelangelo (e I fratelli Michelangelo essere il titolo del futuro progetto di videoarte di Cristiana), o addirittura da un Antonio Michelangelo che si appropria della voce e degli sguardi dei figli.  

A proposito di lavori immensi e progetti a più voci: recentemente hai pubblicato sull’Indiscreto una maxi inchiesta sullo stato della critica letteraria e del romanzo, coinvolgendo ben sessantasette critici, mentre sempre sull’Indiscreto coordini, insieme a Francesco D’Isa ed Enrico Pitzianti, le Classifiche di qualità, che interpellano circa duecentottanta giurati (tra i quali Culturificio stesso). Puoi dirci qualcosa di più riguardo queste iniziative?

Non avevo mai pensato a questo collegamento, ma ora che me lo dici mi appare chiaro: probabilmente non avrei mai messo a sistema sessantasette critici (o trecento “grandi lettori”) se prima non avessi fatto lo stesso con centoquindici autori… le due iniziative hanno avuto riscontri importanti, e ne sono ben felice: per quanto riguarda la prima, mi interessava provare a rendere un po’ di prominenza alla critica, perché trovo che in un’epoca di sovrapproduzione editoriale ed eccessiva velocità del mercato, il suo ruolo o, meglio, alcuni dei suoi ruoli, quelli di selezione, indirizzo e analisi, siano sempre più cruciali, cosa che si scontra col paradosso della progressiva riduzione degli spazi a essa deputati; inoltre mi interessava riprendere e ampliare un lavoro fatto dalla Balena Bianca, dove aveva chiesto a dieci giovani critici di stilare una sorta di piccolo canone degli anni Zero. La Classifica di qualità, invece, è il reboot di un’idea preesistente, quelle classifiche che erano nate nell’ambito del Premio Dedalus e del festival Pordenonelegge e durate dal 2009 al 2013, e che mi erano sempre sembrate uno strumento preziosissimo di indirizzo, orientamento e messa a valore di testi di valore che per tante ragioni nelle classifiche di vendita non sarebbero finiti mai. Così, trovandoci per le mani questo nuovo indirizzario di sessantasette critici, con Francesco D’Isa, direttore dell’Indiscreto, siamo partiti da lì per rifondarle, aggiungendo attorno a tale nucleo autori, librai, organizzatori di rassegne, riviste letterarie e altri addetti ai lavori. La prima è andata bene, la prossima sarà a maggio e penso che ci sarà da divertirsi – anche se non potrò giocare di persona: essendo io coordinatore, per correttezza metterò I fratelli Michelangelo fuori concorso.

Torniamo di nuovo al tuo romanzo. Mi sembra che il titolo I fratelli Michelangelo si possa leggere come un riferimento a un libro rispetto al quale ti poni, da un lato, in antitesi, ma che prendi anche come modello dichiarato: I fratelli Karamazov…

Per quando non sia mai stato in dubbio che il padre, in questo romanzo, si dovesse chiamare Antonio Michelangelo, I fratelli Michelangelo è stato per anni solo il titolo di lavorazione, proprio perché il paragone poteva sembrare arrogante; tuttavia andando avanti quel cognome ha generato, come si può ben vedere leggendo il libro, una miriade di rimandi a cui diventava sempre più difficile rinunciare: ho deciso finalmente di tenerlo quando mi sono accorto che “i fratelli Michelangelo” possono sì essere Aurelia, Louis, Cristiana, Rudra e Enrico, ma anche Antonio Michelangelo e Abramo, il suo fratello maggiore morto in gioventù. Credo comunque che questo libro abbia più debiti con Mann (e col Mann del Doktor Faustus, più che con quello dei Buddenbrook) e col suo ispiratore dichiarato Jacobsen, che con Dostoevskij, per quanto il conflitto di Enrico col padre per il possesso di Nicoletta sia evidentemente karamazoviano.

C’è una scena molto bella nel primo capitolo, in cui Enrico si trova davanti la sua libreria di San Giovanni e, nel rivedere alcune letture che sono state fondamentali per la sua personalità, scopre un primo legame con il padre ancora sconosciuto. Se ci trovassimo di fronte alla libreria di Vanni Santoni, quali titoli si leggerebbero immediatamente?

Grazie, anch’io amo quella scena, di cui peraltro abbiamo raccontato l’origine poco sopra. La mia libreria però è piuttosto diversa da quella di Enrico, e nello scaffale centrale troveremmo la zona “scienza sacra”, quindi Bhagadav-Gita, Vivekachudamani, Aforismi di Śiva, Bibbia, Vangeli Apocrifi, Ildegarda di Bingen, Meister Eckart, Tao T’e Ching, Sutra del Loto, Libro Tibetano dei Morti, I-Ching,  Sufismo, Tantra, e ancora i testi di Guénon, Huxley, Gurdijeff, Leary, etc. Poi la poesia: i miei numi tutelari, prima ancora dei prosatori, sono Eliot, Blake, Milton, Plath, Dickinson, Walcott, Cummings, Rimbaud, Celan, Bachmann, Zanzotto, Pound, Thomas, Lautréamont… e subito sotto le basi: il grande romanzo francese e russo dell’Ottocento, e quello americano del secondo Novecento, più Borges, Kafka, Woolf e Joyce, gli imprescindibili del modernismo.

Hai dichiarato di esserti ispirato per i lavori di Cristiana, l’artista geniale della famiglia, ad opere, installazioni o progetti di reali artisti affermati d’arte contemporanea. Cristiana inizialmente pensa di partecipare a un bando del Palais de Tokyo con una proposta legata a una serie di parole intraducibili (probabilmente il tuo riferimento in questo caso è l’artista inglese Marija Turina). Quali sono alcune parole untraslatable che possono “tradurre” Vanni Santoni?

Tra le parole su cui lavora Cristiana, mi piace molto la mudita, in hindi la felicità per i successi degli amici (l’opposto, dunque, della tedesca Schadenfreunde): non so cosa sia l’invidia e credo che questa sia una bella fortuna per chi fa questo mestiere. Anche l’Ilinx, la voglia di perdere il controllo e lasciarsi prendere da una frenesia dionisiaca, e la Kaukokaipuu, in finlandese la nostalgia per un luogo dove non siamo stati, fanno parte, credo, di me e dei miei libri.

Dirigi la collana di narrativa di Tunué, casa editrice famosa per la graphic novel, che propone titoli molto interessanti che stanno riscuotendo anche un buon successo. Ci puoi dare qualche anticipazione delle prossime uscite?

In questo momento siamo tutti concentrati sul lancio del comparto della collana dedicata alla narrativa in traduzione, diretto da Giuseppe Girimonti Greco. Il primo titolo uscirà a maggio, per il Salone, e arriva da un astro nascente ma già luminosissimo (ha appena vinto il maggior premio del suo paese) della letteratura brasiliana, la trentenne Carol Bensimon. Il titolo è Biliardo sott’acqua.
Per quanto riguarda invece la narrativa italiana, a giugno continueremo con la nostra tradizione di esordî, lanciando Bruno Tosatti, romano classe ’87, col suo Talib, o la curiosità, un romanzo tra l’Umberto Eco di Baudolino e il Voltaire di Candido, già finalista all’ultimo Premio Calvino.

Forse dopo un lavoro così imponente vorrai prenderti una pausa, ma la domanda te la faccio lo stesso: progetti per il futuro?

Se non scrivo, muoio, nel mio caso davvero non è un’affermazione retorica. Quindi… scriverò. Certo, dopo un lavoro grosso come I fratelli Michelangelo, devo respirare prima anche solo di pensare a come fare qualcosa alla loro altezza (o ancor meglio che li superi!), per ora quindi mi concentro sul tour, dato che ho già delle uscite previste: in autunno tornerà finalmente in libreria, per Laterza, il mio primo romanzo Gli interessi in comune, mentre a inizio 2020 farò un pamphlet sulla scrittura e il suo insegnamento (si può insegnare la scrittura? O forse si può solo insegnare a essere scrittori?) per gli amici di minimum fax.

[Vanni Santoni, 27.03.2019]

Intervista a cura di Susanna Ralaima