Riccardo Grozio
pubblicato 4 anni fa in Recensioni

La classe avversa di un fuoriclasse

La classe avversa di un fuoriclasse

Lavora nell’industria e si è laureato in Filologia Moderna, è consulente di marketing e comunicazione e insegna alla Facoltà di Scienze Linguistiche dell’Università Cattolica di Brescia. Con La classe avversa (Hacca Edizioni, 2020), Alberto Albertini opera una sintesi felice fra due mondi tradizionalmente estranei.

Nel nostro paese, infatti, tranne pochi casi, l’industria raramente è stata oggetto di frequentazioni letterarie. Fatta eccezione per due olivettiani doc, Paolo Volponi e Ottiero Ottieri e, più recentemente, per autori come Ermanno Rea, Silvia Avallone, Edoardo Nesi, citandone solo alcuni, non sono comunque molte le prove convincenti di narrativa industriale. Fra queste si è conquistato un posto di tutto rispetto il recente romanzo d’esordio di Alberto Albertini, segnalato dal Comitato di Lettura del Premio Italo Calvino e vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci Opera prima.

Partiamo dal titolo: anziché richiamare le lotte operaie, qui il termine classe sfuma in contorni meno definiti, designando le diverse tipologie di coloro che sono al comando dell’azienda (famiglia, manager, finanza) e che puntualmente finiscono per cannibalizzarsi a vicenda. In senso metaforico poi la classe evoca l’eleganza, la leggerezza e la cultura del protagonista, soprannominato Conte, un epiteto di cui va orgoglioso, in quanto sottolinea uno stile che in azienda è del tutto assente «e viene confuso con la scarsa virilità». Il suo dialogo immaginario con Ottiero Ottieri e altri riferimenti letterari accompagnano, talora a sorpresa ma sempre con discrezione, il dipanarsi delle vicende.

Il teatro della narrazione è una fabbrica del nord Italia a tipica conduzione famigliare, che, nel tempo, subisce la sorte di gran parte delle aree produttive italiane: alla prima crisi, sul finire del secolo scorso, i manager sostituiscono i padri-fondatori; poi, dagli anni Duemila, inesorabilmente subentrano i fondi d’investimento. Pur essendo il figlio del padrone, che nel frattempo è stato declassato alle dipendenze di un direttore irascibile e borioso, il protagonista svolge i suoi compiti non solo con onestà e impegno ma con uno slancio che gli fa vivere il lavoro quasi agonisticamente, grazie a una passione che lo condurrà, sfruttando i tempi morti e non pochi weekend, a laurearsi con trenta e lode in Filologia Moderna.

Gran parte della vicenda ruota attorno alla trattativa per aggiudicarsi il più grande ordine nella storia dell’azienda, quello con la società americana GM, che il protagonista insegue come «un’impresa epica», fra la pigra indifferenza dei colleghi e i subdoli sabotaggi del direttore generale. Nel frattempo, fra viaggi aerei, auto a noleggio e camere d’albergo, s’intrecciano le vicende esistenziali di un uomo alle prese con un matrimonio che sta per andare in rovina e di una nuova storia che non riesce a decollare. Il tutto inserito in un’atmosfera rarefatta, pervasa di ricordi e di nostalgia per quella silente società agreste che fa da contrappunto al fragore metallico della fabbrica, dove viene soffocata ogni relazione autentica che non vada al di là della mera convenienza. In questa vischiosità non esiste più uno scontro di classe che è stato per così dire esternalizzato, «moltiplicando i nemici: il mercato, i concorrenti, i cinesi o l’eterna crisi». A seconda del proprio tornaconto, oggi l’azienda può licenziare o riassumere, se cambia lo scenario. Un tempo non era così.

Noi non abbiamo licenziato nemmeno chi era diventato poco produttivo o non si era adeguato alla nuova tecnologia, perché era un padre di famiglia. Anzi abbiamo assunto pure tanti figli, nella famiglia allargata si ereditava e tramandava il lavoro.

Nel dopoguerra c’era un’opportunità per tutti: «Se eri modesto, sceglievi tra milioni di uffici e fabbriche e diventavi un dipendente. Ma se avevi un’idea e voglia di fare, diventavi un imprenditore». Questa è stata la parabola di tante aziende famigliari protagoniste del miracolo economico, che purtroppo non sono riuscite a garantire una continuità alla propria impresa: «una generazione la fa, la seconda ne gode e la terza la dilapida».

Seppure non si riconosca più in quell’azienda, che nel frattempo è mutata profondamente, il protagonista prosegue imperterrito nella sua battaglia solitaria per vincere la scommessa più ambiziosa. Nonostante numerosi contrattempi e incertezze, alla fine ce la farà a modo suo, «leale come voleva la dea Minerva, gentile come intendeva il Dolce Stil Novo. Non conta il risultato ma come interpreti il tuo mestiere». Un lavoro da poeta, giunto beffardamente a compimento nella circostanza peggiore, quando un fondo d’investimento tedesco acquista l’azienda, dando inizio a una radicale ristrutturazione che scalza i vecchi padroni e dimezza gli stipendi. È arrivato il momento di licenziarsi: «quando fai la storia devi andartene». Dopo aver chiuso nella classica scatola di cartone all’americana alcuni memorabilia accumulati negli anni, nonché una serie di parole tecniche che ormai per lui hanno un valore terapeutico, varca il cancello, lasciandosi alle spalle centinaia di storie e culture che l’hanno arricchito. Fuori lo attende la moglie: con ritrovata armonia, insieme, si avviano verso casa, dove li attendono i due figli e il cane Tito. Il vero epilogo sarà un altro che, per ovvie ragioni, non anticipiamo, ma che è fortemente legato alle aspirazioni del protagonista.

di Riccardo Grozio