La deontologia delle immagini nel giornalismo
da Robert Capa alla postfotografia
La deontologia nel fotogiornalismo era minata già prima dei mezzi tecnologici di cui attualmente disponiamo. Una panoramica sull’utilizzo della fotografia nel giornalismo può sciogliere ogni dubbio. Il paradigma del vero/falso dell’immagine può dimostrarlo se si considera lo scatto sia nella sua fase di produzione che in quella di post-produzione all’interno degli impaginati: nel primo caso un esempio sta nella celebre foto del “Miliziano morente” di Robert Capa, considerata la più grande messa in scena della morte nella storia, nel secondo basti pensare alla decontestualizzazione di un’immagine accompagnata per esempio da didascalie fuorvianti.
Il sociologo francese Luc Boltanski discute diverse tipologie di falso, dalla posa e dalla messinscena dei soggetti in foto per l’appunto con Capa, alla manipolazione delle immagini, attraverso i testi, le didascalie, che possono variare o addirittura rovesciare il significato di una fotografia, di per sé neutrale e cangiante di senso solo in base al contesto culturale, all’iconografia che le si attribuisce nelle varie epoche, come già aveva scoperto il filosofo, linguista e semiologo Roland Barthes. Nel falso di un’immagine rientrano anche i «tagli» apportati sull’inquadratura, la posizione che l’immagine ricopre gerarchicamente all’interno della testata e tutti gli elementi di contorno, fino alla censura, applicata dai regimi totalitari, e al ruolo dei giornalisti embedded.
Quando trattiamo la deontologia del giornalismo in relazione alle immagini è necessario considerare un altro paradigma, quello del pertinente/osceno nella fase di pubblicazione della foto-notizia. Tale aspetto è esplicato abbastanza bene nel dibattito mediatico generato nel settembre del 2015 in seguito alla diffusione dell’immagine di Aylan Kurdi, il piccolo siriano annegato e ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, il cui scatto condiviso dalle grandi testate e soprattutto dalla Rete fece il giro del mondo, attivando in un primo momento una sorta di voyerismo, una scellerata pornografia del dolore, come per gli abusi della prigione di Abu Ghraib, e al contempo un senso di assuefazione, di “ipertrofia emotiva” da parte di chi osserva, dovuta all’eccessiva esposizione della sofferenza, che di conseguenza conduce i giornalisti a spingersi ancora oltre la soglia consentita per attrarre. Una sorta di circolo vizioso.
La pubblicazione di immagini che ritraggono minori in uno stato di svantaggio, di disagio, viene contestato dall’Odg in virtù della Carta di Treviso e, se stranieri, anche della Carta di Roma, due allegati fondamentali del Testo Unico dei giornalisti a tutela dei minori e degli stranieri. Altri due documenti rilevanti che dosano il giusto equilibrio tra diritto dell’informazione, di cronaca e diritto alla privacy, sono la Carta dei doveri e soprattutto il Codice deontologico, anch’essi inseriti nel Testo. La morbosità con cui la foto del piccolo Aylan è stata diffusa in Rete e la strumentalizzazione grafica, politica, attuata hanno accentuato e accelerato il passaggio dal tragico all’osceno.
Ma qual è la definizione di osceno? Lo scatto diventa contestabile non tanto da un punto di vista della forma; l’attributo, la misura e l’intensità dell’osceno dipendono, prima ancora che dall’identità di ciò che viene esposto, dal suo livello di palesamento, dalle modalità e dalla durata della sua ostensione, dalla vastità del pubblico al quale l’osceno si mostra. L’analisi su Aylan parte da fondamenti teorici, da testi e da fotografie, come quella de Il bambino di Varsavia di Stoop. F. Rosseau, storico francese, autore del libro Storia di una fotografia, dimostra come quell’immagine oggi non è più un documento, non informa, il ricambio di valori e la diffusione martellante della foto che modifica a sua volta l’immaginario ne ha fatto un’icona. Con la sua sovraesposizione, la foto ha saturato la nostra memoria. La pubblicazione senza contesto ha svuotato il senso originario che stava fra significante e significato e grazie all’effetto cumulativo di inquadrature sempre più strette sul bambino poi si sarebbe invece giunti a una pedagogia dell’emozione; l’evento tragico sarebbe stato inghiottito dalla carica emotiva di un’immagine che non fa più appello alla conoscenza per mobilitare solo la commozione. Lo stesso è avvenuto con la foto di Aylan, che con la sua maglietta rossa è diventato un’icona, il simbolo di tutti quei bambini annegati in mare. Quell’immagine si è svuotata di significato, ha perso il senso tragico della morte, diventando un simbolo che col tempo sarà utilizzato addirittura per altri contesti. Lo scatto inoltre ha contribuito ad innescare il fenomeno dell’«orrorismo» mediatico di cui ci parla Adriana Cavarero, filosofa e docente universitaria, che si è servita di questo neologismo all’interno di uno dei suoi saggi per indicare un terrorismo dietro cui si scorge quel tratto di ripugnanza che accomuna molte scene della violenza contemporanea. A dispetto del terrore, l’orrore più che la sfera della paura riguarda la ripugnanza.
Innanzitutto ripugna la disumanizzazione in primis attuata verso gli inermi di Hannah Arendt, i fanciulli: lo smembramento del corpo, la violenza che lo disfa e lo sfigura, l’essere umano offeso nella dignità ontologica di essere corpo singolare. L’orrore sta nella visione della disumanizzazione, nell’eccesso della visione mostruosa che provoca nell’osservatore un processo di anestetizzazione della coscienza che poi si riflette sulla politica e sulla società, un meccanismo già analizzato dalla scrittrice statunitense, esperta di fotografia, Susan Sontag.
Alcune emittenti televisive, testate e/o governi si sono relazionati ai messaggi di terrore dell’Isis, ad esempio, cercando di porre un freno al fenomeno, attraverso i princìpi fondamentali del giornalismo che sono l’esposizione dei fatti, la decodificazione, l’analisi imparziale, oppure tramite l’autocensura da parte degli stessi fotoreporter come avvenne con lo scatto di Richard Drew e il suo The Failling Man, l’uomo che si era lanciato da uno degli edifici, dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Il governo francese applicò la censura governativa sulla foto scattata all’interno del Bataclan dopo gli attacchi del 2015 in Francia. Il sociologo e filosofo canadese, Marshall McLuhan, sosteneva che per combattere il terrorismo basterebbe staccare la spina, considerando come messaggio il mezzo.
Allo stato attuale delle cose, conseguente all’utilizzo delle nuove tecnologie, il discorso sulla deontologia del giornalismo per immagini, nell’era del digitale, dell’applicazione del fotoritocco, e dei meccanismi di citizen journalism, il giornalismo 2.0 praticato dagli utenti e della postfotografia si fa ancora più serio. La postfotografia rappresenta un momento storico in cui «abitiamo l’immagine nella stessa misura in cui essa ci abita». La postfografia, rappresenta non ciò che è, ma ciò che non è, secondo il critico cinematografico francese Serge Daney che capì con anticipo che si stava penetrando nell’era delle immagini assenti, delle immagini che non ci sono, perché sono veloci e prive di contenuto e in una prospettiva politica che ci sottrare quelle importanti senza che ce ne accorgiamo: si pensi al cadavere di Bin Laden. La circolazione delle immagini prevale sul loro contenuto, viviamo in una società dell’apparenza, nel villaggio globale di Internet dove tutto può diventare il contrario di tutto. La postfotografia ci mette di fronte all’immagine smaterializzata, e questa natura dell’informazione senza corpo fa delle immagini entità che possono essere trasmesse e messe in circolo in un flusso frenetico e incessante. Se il reale è ciò che torna, le immagini elettroniche, alla velocità della Rete e con il moltiplicarsi degli utenti che le pubblicano, mancano di qualsiasi realtà perché sono senza ritorno. Le immagini sono in un incessante divenire in cui dietro non c’è nulla, per cui ad una foto-notizia ne segue una seconda e poi un’altra a ritmo incessante, spesso in contraddizione tra loro.
Articolo a cura di Gilda Pucci