Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Tra immagini e parole

La donna che visse due volte

La donna che visse due volte

Il secondo appuntamento della rubrica Tra immagini e parole sarà incentrato sull’analisi del testo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac La donna che visse due volte (1954), confrontato con la celebre pellicola di Alfred Hitchcock (Vertigo, 1958).

In un 1940 tumultuoso il lettore è catapultato in una Parigi che si prepara agli attacchi bellici dei tedeschi. L’imminente guerra, però, è solo uno sfondo che accompagnerà l’intera vicenda narrata e assumerà dei caratteri metaforici in relazione proprio ai protagonisti e alle loro vite movimentate. Roger Flavières è un ex poliziotto terrorizzato dalle altezze, che in seguito ad un incidente avvenuto a un suo collega e ricollegato alla sua fobia, viene espulso dal corpo militare e apre uno studio legale nella capitale francese. Paul Gévigne, suo ex compagno di università e amico di giovinezza, gli chiede di indagare su sua moglie Madeleine, che da un po’ di tempo sembra astrarsi improvvisamente dal mondo e manifestare strani comportamenti. L’avvocato si mette subito all’opera, mostrando sin dall’inizio il suo disprezzo per l’amico e lasciandosi sedurre dal fascino stravagante della giovane Madeleine.

Con il tempo Flavières instaurerà un rapporto di amicizia con la donna (pur amandola segretamente) e scoprirà che questa è convinta di aver già vissuto una vita precedente nei panni della sua bisnonna e per tale ragione avverte il desiderio di porre fine alla sua esistenza, conscia di un successivo ritorno. Il testo è diviso in due parti, nella prima il lettore immagina un Flavières molto più giovane ed ingenuo, che nel finale cede ancora una volta alla sua fobia, lasciando che il destino della sua amata si compia tristemente. La seconda parte del romanzo è invece ambientata cinque anni dopo, la guerra è terminata e quel che resta della città sono anche i resti del cuore di Flavières, ormai conscio di non poter più incontrare la sua Madeleine. Un intrigante imprevisto però gli farà cambiare idea e lo trasporterà nella dimensione della follia e dell’ossessione.

L’intera vicenda è narrata in terza persona, ma la focalizzazione è interna, il lettore può accedere solo alle conoscenze ed ai pensieri del protagonista, dunque vive, anche se velocemente, i suoi tormenti e la degenerazione delle sue manie. La dimensione della paura si manifesta in ogni pagina e – nonostante il ritmo serrato della narrazione, dovuto sicuramente anche all’ampio uso di punti e di frasi minime – la tendenza a fantasticare del protagonista trasporta il lettore nell’inconscio dello stesso, accompagnandolo ad osservare e provare le sensazioni più inquietanti e conturbanti che lo tormentano. Interessanti sono i punti di congiunzione tra l’immaginazione e la realtà: per tutto il romanzo la fobia di Flavières e la guerra divengono metafore della storia di Madeleine. In una Parigi distrutta dalla guerra il protagonista, pur avendo ormai acquisito una condizione di vita agiata, è catapultato nella degenerazione dell’io, tra alcool e depressione e vive, in contemporanea alla sua città, una condizione di disagio e un desiderio di ricostruzione. La paura delle altezze, invece, diviene metafora della vita di Roger, la vertigine dell’anima si manifesta più brutalmente di quella del corpo. La dimensione psicologica di Flavières è subito delineata dagli autori, anche attraverso ricordi infantili e antiche ossessioni. In un contesto storico del racconto molto delineato si seguono le vicende di una donna che sembra invece non avere tempo, la cui esistenza si perpetua nei secoli, sconvolgendo le vite degli altri. La realtà e la fantasia si mescolano irrimediabilmente e il protagonista è costretto ad affrontare la prima nell’ambiguo finale, che lo guiderà verso una scelta estrema.

Madeleine esiste? Nella logica di Flavières quella donna senza tempo dilanierà per sempre il suo animo, lasciandolo sospeso ad una fantasia ingenua ed inesauribile. La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock mantiene pressoché la stessa struttura narrativa dell’opera letteraria ma, a differenza della carta stampata, viene attualizzato il contesto storico ambientando le vicende nella moderna San Francisco. James Stewart interpreta Scottie Ferguson, un detective ormai lontano dalle indagini a causa delle sue vertigini e della sua ultima tragica esperienza, incaricato da un amico di pedinare la moglie Madeleine Elster (Kim Novak) affetta da apparenti manie suicide. Dopo aver sventato un primo tentativo di suicidio, Scotti si innamora perdutamente della donna affascinante e misteriosa; il detective però non può nulla al secondo tragico tentativo. Scottie incontra presto una seconda donna, incredibilmente simile al suo amore perduto, e ormai vittima di una vera ossessione, decide di risolvere l’intricatissima vicenda. Un pellicola noir ricca di sfaccettature artistiche e stilistiche che conferma, per l’ennesima volta, le abilità di Alfred Hitchcock di trasmettere allo spettatore inquietudine e trepidazione.

Presenza e assenza, vita e morte, sogno e realtà in una dimensione filmicamente irreale, leggiadra. Come in Rebecca, la prima moglie (Rebecca, 1940) il regista utilizza un dipinto, per la precisione un ritratto. Un’opera d’arte che raffigura una sorta di donna iconica, intangibile, usata come escamotage nella narrazione ma anche come elemento estetizzante di quella panoramica filmica che punta all’immaginario del sogno/incubo. Infatti, in una delle sequenze più suggestive della pellicola, il regista ricorre all’inserimento di animazioni ed effetti speciali – distorcendo il colore dell’immagine – per rappresentare al meglio le ossessioni del protagonista, nei confronti della sua paura per l’altezza e della donna misteriosa. Riflessioni sulla paura, sul doppio e sulla forzata ricostruzione di un’esperienza passata, o meglio di una figura, talmente bella ed elegante da volerla rivivere. La conferma di questa percorso narrativo tra la vita e la morte è confermato proprio dall’opera letteraria, dove viene citato il nome di Euridice, sposa di Orfeo, che nella mitologia greca muore per il morso di un serpente. Orfeo ottiene di poterla ricondurre fra i vivi purché non si volga a guardarla prima dell’uscita dall’Ade, ma, quasi sulla soglia, si volta, ed Euridice scompare per sempre. Misteri, enigmi, ricordi, ossessioni e miraggi sono gli elementi che in questa pellicola, come in una formula chimica, vengono bilanciati alla perfezione attraverso l’idea letteraria originale e la straordinaria bravura di un maestro della camera da presa.

Le differenze tra romanzo e film sono notevoli e riguardano alcuni aspetti fondamentali della narrazione. Il contesto storico è innanzitutto completamente differente, infatti Hitchcock ambienta l’intera vicenda negli Stati Uniti, dunque la dimensione metaforica tra la Parigi in guerra e l’animo turbato del protagonista scompare completamente. Ma anche per quanto concerne la trama i cambiamenti apportati dal regista sono rilevanti: Hitchcock decide di rivelare anticipatamente l’identità di Madeleine e fa inoltre in modo che la morte della donna sia frutto di una fatalità, a differenza del romanzo in cui questa avviene per volontà di Flevières. Il regista sottolinea in maniera particolare la fobia del protagonista e se ne serve anche nel finale; la vertigine, quindi, viene mostrata in tutte le sue forme nel corso del film, sia a livello pratico che emozionale, mentre nel libro rappresentava un elemento maggiormente legato alla sfera emotiva del protagonista. Entrambe le opere sono accomunate da un’atmosfera opprimente e da un senso di inquietudine. Nel film le ossessioni del protagonista vengono mostrate attraverso la colonna sonora e le scelte stilistiche – come le carrellata ottica per sottolineare la vertigine – nel romanzo esse si manifestano attraverso l’introspezione e i sentimenti di Roger.

di Maria Cagnazzo e Alessandro Foggetti