“La filosofia del salto”: Søren Kierkegaard
Punto di partenza dell’analisi kierkegaardiana è la concezione dell’uomo: come Johann Schmidt, meglio noto come Max Stirner, che definì l’uomo reale, contingente come l’ “Unico”, così Kierkegaard definisce l’essere umano nella sua singolarità e individualità. L’essere umano particolare, quindi, non l’Uomo come concetto generico. Ciò però non deve ingannare l’uomo, poiché ognuno di noi, afferma il filosofo di Copenaghen, è sì l’Uomo, in quanto ontologicamente appartenente alla Comunità degli uomini, ma egli è e deve diventare “singolo”, esistendo al di fuori di tutti gli ordini prestabiliti, predeterminati. Essendo l’uomo un essere che ha fede, e non può non averne come direbbe James, Kierkegaard sottolinea che quella fede che l’uomo professa, e che è riconosciuta nel cristianesimo, nella fattispecie del luteranesimo, non può essere la fede così come è professata nel Nuovo Testamento: per lui quella fede rimane una pura possibilità. L’uomo kierkegaardiano è l’uomo della decisione, della scelta, è l’uomo che non ha certezze di fronte a se e per questo deve decidere sempre in ogni situazione di vita. La vita è divenire, caos, mutamento e come tale l’uomo si trova di fronte a scelte che deve fare per poter vivere: anche la sua fede è imprevedibilità, rischio, scandalo poiché essa può portarlo alla salvezza quanto alla perdizione. La fede non porta a certezze, a consolidamenti, ma aumenta l’imprevedibilità degli eventi: tutto è in mano alla scelta del singolo. C’è qui allora da precisare che mentre per Hegel lo Spirito non può tralasciare, nel suo viaggio nell’esistenza, nessuna delle sue forme essenziali (et-et è la formula che esprime questo concetto hegeliano), per Kierkegaard invece le varie realtà (etica, estetica e religiosa) sono possibilità tra le quali l’uomo deve scegliere. Deve quindi scegliere una e rifiutare l’altra: aut-aut è l’espressione che egli utilizza per designare il divenire, la scelta, il salto che l’uomo deve compiere. Il futuro è quindi per l’uomo pura possibilità e quindi puro nulla. A ciò Kierkegaard collega il sentimento dell’angoscia, che si presenta nell’uomo di fronte all’imprevedibilità dell’esistenza. L’uomo è angosciato per ciò che può derivare dalle sue scelte ed è qui allora che egli deve fare il salto decisivo: o la disperazione per la contingenza della vita umana, per l’incertezza del divenire, o la fede in Dio. Il primo atteggiamento è ciò che il cristianesimo, e di conseguenza il filosofo, condanna come sfiducia nel potere del Creatore. La fede è perciò la patria del dubbio, del paradosso, dello scandalo (Kierkegaard fa l’esempio biblico di Abramo costretto da Dio ad uccidere il figlio Isacco) che porta l’uomo al di la della razionalità e dell’epistème. Ma per l’uomo contingente e finito, il passaggio dall’oscurità alla luce, alla verità, può essere fatto solo grazie all’intervento dell’Assoluto, che aiuta l’uomo a capire il perché della sua diversità dall’Ignoto e il perché della sua non-verità, per arrivare così a possedere la salvezza. Ecco allora che la vera dialettica della vita è, nella formidabile intuizione di Kierkegaard, il divenire concreto dell’esistenza umana.