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pubblicato 3 anni fa in Recensioni

“La metà del doppio”: esatto come due più due fa tre

“La metà del doppio”: esatto come due più due fa tre

Quanto fa la metà del doppio? La risposta è che il doppio non è un paio né un’altra quantità precisa, ma un’indicazione relativa, un non-numero. In linguistica è l’elemento che è due volte, la consonante che si prolunga o ripete nella pronuncia e nella grafia. È qualcosa che non è semplice, scempio, ma geminato. Un gemello altro-da-sé, un doppelgänger, il vero e il falso difficili da distinguere che forse sono solamente il medesimo organo.

Il doppio viandante (doppel, ‘doppio’, e gänger, ‘che se ne va, passante’) è l’essere umano che attraversa la realtà – quella percezione considerata autentica e corretta – che si diparte e poi si ramifica, l’elemento centrale della raccolta e della stessa scrittura di Fernando Bermúdez, Premio Julio Cortázar 1994 e Premio Juan Rulfo 1997, per la prima volta in Italia con La metà del doppio (Edizioni Spartaco).

Sette narrazioni dell’autore argentino, tradotte e curate da Giovanni Barone, compongono una raccolta di esecuzione postmodernista, dove «niente è finzione» e «tutto, assolutamente tutto è autentico», con la realtà che è – come afferma il titolo di uno dei racconti – Esatta come due più due fa tre.

Poiché le parole sono strumenti di potere, bussole dell’identità e del cambiamento, insieme simbolo e ancelle della relatività, nei suoi racconti Bermúdez denormalizza proprio grazie alla lingua storie di persone comuni che vivono vite comuni, mostrando come la realtà è più un costrutto umano che un’assoluta, primigenia forma. Lo fa con l’artificio della prosa – «tu lo sai, soltanto ciò che è assolutamente falso ha il rigore della precisione» – che spesso accompagna pensieri o movimenti altrettanto labirintici dei suoi personaggi: ora utilizza vocaboli semplici ma combinati in forme decisamente costrutte, periodi che corrono sul filo di una raffinatezza quietamente forzata; ora con tocchi di evidente, raffinato lirismo.

Bermúdez per formazione – tra i suoi riferimenti primi Macedonio Fernández e Jorge Luis Borges – e professione – insegnante di Linguistica all’Università di Uppsala e fondatore del laboratorio di scrittura creativa Grupo Estocolmo – è ben consapevole della fondamentalità delle parole.

Nel racconto d’apertura, Mezzanotte passata, il narratore le altera o le omette per curarsi l’ego; sono merce di scambio che centella per ottenere quanto desiderato dalla donna che lo accudisce. L’autore ci apre la mente di un allettato pluriennale, incapace di uscire nel mondo e così da sé stesso: il racconto è un percorso a incroci, svolte spigolose e vicoli ciechi di ricordi, idee ed emozioni di «uno sventurato» recluso dietro muri di silenzi e di finte risposte. La lingua di Bermúdez si complica, diventa quasi ingombrante, sbatte da una parete all’altra del racconto-labirinto – i muri sembrano avvicinarsi sempre di più, «in modo impercettibile» – e a volte è pesante quanto le gambe del narratore: gambe quasi finte, un po’ melodrammatiche, come lo stupro un po’ melodrammatico e quasi finto che si consuma davanti ai suoi occhi. La verticalità di Mezzanotte passata è rintracciabile anche nell’aggiramento del genere: l’intensa caratterizzazione del protagonista-narratore e la focalizzazione interna potrebbero farne una narrativa psicologica, ma l’assenza di un realismo comunemente inteso lo fa uscire dai confini della classificazione.

Anche nel secondo racconto, ancora più che nel precedente, continua la sospensione della realtà istituzionalizzata attraverso la lingua. La prosa è cadenzata, insistente e volutamente insincera per sottolineare, in fondo, «qualcosa che vuole essere fittizio ma che succede implacabilmente reale»: dialoghi impossibili dentro un altro appartamento che è, di nuovo, un «patibolo obbligato»; ascoltiamo le conversazioni di una coppia che sembra uscita «dalla pagina ottantacinque di un romanzo. Dal minuto sessantatré di un film. Da altre cose ancora», in cui «le parole rimangono […] senza essere elaborate». I corpi di lui e lei si intrecciano a «considerazioni alfabetiche» e aneddoti letterari, tra Edgar Allan Poe, Charles Baudelaire e romanzi polizieschi.

Lei dice che l’alfabeto è patetico. Lui le parla di un racconto di Poe nel quale una mattina un editore pubblica il suo giornale con tutte “x” al posto delle “o”; era successo che il concorrente gliele aveva rubate tutte la notte prima, le spiega. Lui disegna un esempio nell’aria: invece di “dopo” il tipo scriveva “dxpx”, dice.

La scrittura verticale di Bermúdez si esprime anche nell’intersezione dei piani temporali, nel modo in cui incastra le storie nelle storie, una sorta di novello Shahrazād, costruendo narrazioni ramificate e affabulando con «l’incongruenza di alcuni periodi eccessivamente barocchi o melodrammatici».

In Blomma tesse l’intreccio quasi rigo per rigo, in tempo reale, in un dialogo diretto con il lettore – a cui affibbia, a un certo punto, identità femminile e un ben preciso ruolo – che lo accompagna tra le pagine e dentro il racconto stesso.

Il paese deve essere grande, dunque; una città, più verosimilmente. Una città importante dell’interno. […] Tu stai pensando a Mendoza, e mi sembra giusto. È Mendoza dunque, e in questo caso ci devono essere delle montagne al di là dell’ingannevole prospettiva della stazione degli autobus.

Pedinano insieme il protagonista, scelto tra tanti possibili altri – quasi come in un gioco, un personaggio da customizzare – e insieme lavorano al worldbuilding, selezionando con cura i termini-mattoni. 

I marciapiedi molto ampi attirano la nostra attenzione, così come i canali che scorrono tra la linea degli alberi e il bordo del marciapiede. Dici che si chiamano fossi. E allora, i fossi attirano la nostra attenzione.

In particolare questa avventura ha un’eco da librogame, con una sorta di narrazione interattiva di ispirazione borgesiana: tutti stanno o meglio «stiamo dentro la stessa trama». Dei librigame il racconto ha anche l’essenziale multimedialità: nell’impaginato, a un certo punto c’è un’immagine bidimensionale che non solo illustra un dettaglio dello sfondo del “viaggio” ma è proprio un tassello, per quanto minuto, della narrazione.

Oltre alla lingua, vera protagonista di La metà del doppio, è dunque il viaggio l’elemento unificante: chiaro prolungamento della transitorietà dei sentimenti e delle intere esistenze, nonché specchio della scrittura peregrina di Bermúdez, viaggiatore in prima persona. Molti dei suoi personaggi compiono una qualche forma di esplorazione, metaforica o fisica che sia. Condizione particolarmente evidente in Mappa Mundi, quarto racconto e mappa sentimentale fatta di cartoline bugiarde che la protagonista raccoglie in giro per il globo.

Le singole storie, tuttavia, in fondo non assumono particolare importanza nell’economia della raccolta: sono appunto viaggi in un mondo liminale, ibrido com’è il linguaggio e anche molto altro nell’esistenza di un individuo. E della cultura natale l’autore conserva i «tenui ed eterni interstizi di assurdo» borgesiani, citati nella postfazione e caratteristici della produzione latinoamericana, soprattutto di quella argentina. Transizioni tra mondi, tra reale e finzione – opposti che rigetta esplicitamente.

In definitiva, La metà del doppio è una lettura per chi può chiudere gli occhi, accettare la sospensione delle leggi del sensibile tramite tecniche narrative che sfumano i confini e abbia desiderio di lasciarsene coinvolgere. Altrimenti il pericolo è restare un po’ storditi, persino infastiditi, dai giochi di penna dell’autore, dall’ambiguità, dal paradosso, dal nonsense.

di Ornella Soncini