Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Recensioni

“La piccola conformista” di Ingrid Seyman

“La piccola conformista” di Ingrid Seyman

Lo so che non tutti sono così fortunati da avere genitori sessantottini che facevano “ginnastica” in camera loro ogni domenica pomeriggio, mentre la figlia, con lo sguardo fisso sul conduttore Jacques Martin, sognava righe di lato e calzini merlettati. Io sì.

Sono nata, insomma, da destra, in una famiglia di sinistra.

La piccola conformista (2021), edito in Italia da Sellerio nella traduzione di Marina Di Leo, è il romanzo d’esordio di Ingrid Seyman, giornalista e regista francese. Seyman ha realizzato inchieste e reportage per «Marie Claire», diretto film istituzionali per Capa Enterprises e documentari sul tema della disabilità per France 5. Originaria della Provenza, ambienta il suo romanzo a Marsiglia – capoluogo meridionale della Francia – intorno agli anni ’70.

La piccola conformista del titolo è anche la sua voce narrante: Esther Dahan, una bambina comica e senza freni inibitori, che racconta le contraddizioni della famiglia e dell’ambiente in cui vive. Fin dalle prime pagine emerge il carattere irriverente di Esther, che sostiene di essere «nata da destra, in una famiglia di sinistra». Questa sua inclinazione è evidente fin dalla sua nascita: è infatti venuta al mondo il giorno di Natale, nel disappunto di una madre atea e di un padre ebreo, che ha visto in questa data un segno del malocchio. I suoi primi tre anni di vita li definisce come quelli di «un’incorreggibile reazionaria» che sogna vestitini merlettati blu, si addormenta ogni sera alle otto, non fa i capricci e non butta vasi a terra come invece fanno, a quanto pare, tutti i figli dei sessantottini.

La madre, Elizabeth, è una giovane trentenne ancorata agli anni della contestazione, atea e anticapitalista, eppure dipendente statale. Toglie i marchi dai vestiti dei figli e crea giochi come Giorno di paga, una specie di Monopoli per bambini socialisti. È venerata dalla suocera come un angelo, una Vergine Maria; anche la figlia, a modo suo, la venera osservandola nei momenti di felicità e tenendola stretta in quelli di dolore. L’unico difetto di sua madre, per Esther, è sempre stato Patrick, il marito, il quale sembra ormai condividere solo superficialmente le idee di sinistra della moglie. Ebreo soltanto quando se lo ricorda, poeta autopubblicato senza successo, è in realtà un bancario di professione che si diletta a imitare Alain Delon, e a creare dei siparietti in casa dove canta e recita. Patrick ha tic tutti suoi, con cui esorcizza l’ansia di un nuovo olocausto: in un impulso ossessivo di controllo, crea liste per ogni cosa che, come una preghiera, proclama alla famiglia. Esther racconta come i suoi genitori non abbiano nessun desiderio di privacy e condividano la «passione per il nudismo domestico». La famiglia, infatti, è abituata a girare per casa senza vestiti anche durante i pasti, con disappunto della figlia; se hanno ospiti indossano la djellaba, una tunica tipica del Maghreb.  

E poi c’è il fratello minore di Esther, Jérémy, di cui la famiglia pensava «riassumesse in sé tutto il furore e la desolazione del mondo». A differenza della sorella viene descritto come un bambino molto turbolento, con i capelli rossi e «la pelle traslucida, i piedi all’indietro, lo sguardo di traverso».

Osservavo di sottecchi quel mistero: un fratello non-come-noi, con il suo pallore cereo, la sua sconfortante magrezza, i suoi occhi di un azzurro talmente azzurro che, sì, metteva paura. […] Per quanto giudiziosa, ero letteralmente affascinata da quell’individuo che non rispettava niente […]. Mio fratello si rifiutava di lavarsi, di farla nel vasino, di vestirsi, tutte attività infantili in cui io avevo sempre eccelso.

A cinque anni, da una delle liste mattutine di Patrick, Esther comprende come i genitori siano in realtà dei traditori nei confronti sia della figlia sia degli ideali rivoluzionari. È stata infatti iscritta, insieme al fratello, alla scuola privata Jeanne-d’Arc, un istituto cattolico. Inizialmente Esther è molto preoccupata per la sua incolumità, in quanto conosce la fama della Jeanne-d’Arc come «roccaforte dei cattolici di destra sospettati di aver collaborato con il nemico nelle rappresaglie contro gli ebrei». Nonostante le premesse catastrofiche, all’interno di questo istituto la protagonista trova la propria dimensione. La ribellione al caos familiare diventa conformarsi: decide di battezzarsi e diventare cattolica, per allontanare da sé la paura ancestrale legata all’origine ebraica e cercando di conformarsi ai compagni di scuola, ricchi e benpensanti. Una dimensione che scoprirà lei stessa non essere sempre così perfetta.

Tra i vari personaggi che Esther caratterizza con le sue descrizioni pungenti ci sono sicuramente i nonni paterni, attorno cui aleggia il mito di Souk Ahras, cittadina dell’Algeria. Dal 1962, quando l’Algeria francese ottenne l’indipendenza, Marsiglia era diventata una tra le tappe più ambite dagli ex coloni: insieme ai migranti africani, sono molti i francesi ritornano in patria, tra cui anche i nonni paterni della nostra protagonista, Fortunée e Isaac. Come Patrick – cresciuto in Algeria francese – sono dei pieds-noir, cioè dei francesi rimpatriati dall’Algeria. In ricordo dell’Africa i nonni conservano la terra di Souk Ahras in un vaso, che Esther vede più cinicamente come un semplice «recipiente di terracotta ornato di croste marrone in rilievo». Il «vaso di Souk Ahras», cimelio di famiglia dall’aspetto esotico, fa venire in mente il lembo di pelle conservato dalla nonna di Bruce Chatwin, nel celebre diario di viaggio In Patagonia. Alleggia infatti il mistero intorno all’importanza di quella terra, a cui Esther si avvicina, senza carpirne il significato.

Nonostante l’odio verso il padre, Esther ci appare per alcuni aspetti molto simile a lui: come Patrick, prova una forte ansia della morte, ma anche della stessa crescita che collega a un mondo di caos e contraddizioni; al posto delle liste, Esther ama la grammatica e l’ortografia.

Così, in quarta elementare, sviluppai una passione morbosa per l’ortografia e la grammatica, arrivando a padroneggiare norme ed eccezioni come nessun altro. Amavo le è e le é.

Riscopriamo una Esther più simile al padre di quanto vorrebbe. L’odio verso Patrick rivela un vero e proprio rovesciamento del più comune complesso di Elettra; un’avversione che non vedrà però gli esiti sperati.

La piccola conformista è un romanzo di formazione eccentrico, dove la protagonista non aspira a una crescita ma a una stasi, al mantenimento di uno status quo. La pecca del libro è un finale a cui si arriva forse troppo velocemente e che lascia basiti per un colpo di scena che appare forzato e vissuto in modo asettico. Se pensiamo, però, alla personalità di Esther possiamo forse cogliere le ragioni di questa scelta narrativa e del modo in cui è stato raccontato. Resta un libro tagliente, come la voce di Esther che spoglia le ipocrisie della famiglia “di sinistra”; ma anche acuto, perché non ipocrita nel racconto della disabilità e della malattia mentale.

di Arianna Rusalen