La poetica del silenzio
poche parole sullo splendido film Ida, di Paweł Pawlikoski (2013)
Ida è un film del regista polacco Paweł Pawlikoski, che ha vinto il Golden Globe e l’Oscar nella categoria Miglior film straniero, nel 2015. La presentazione scarna è in linea con l’essenzialità e il minimalismo di tutta la pellicola. Il regista evita la retorica delle grandi imprese, ma preferisce mantenere sobrietà e pulizia.
La trama è efficacemente riassumibile in poche righe. Anna è una ragazza orfana cresciuta in convento dopo la Seconda guerra mondiale, nella Polonia comunista. La madre superiora, prima che prenda i voti definitivamente, la invita a recarsi dall’unica parente che le è rimasta, la zia Wanda. Wanda fa la prostituta e, tra i compagni del Partito, gode di grande fama e rispettabilità. Senza celarlo, Pawlikowski ci fa capire immediatamente che sono l’una la controparte dell’altra: nelle inquadrature, la simmetria che le divide (o avvicina) ha un evidente valore dialettico. I due caratteri diversi sono ovviamente il filo conduttore della ricerca che Anna, avendo scoperto la sua vera identità, intraprende con la zia: il suo vero nome è Ida, è ebrea e i suoi genitori sono morti assassinati.
Il viaggio come scoperta interiore non è assolutamente una novità. Lo fa anche, qualche anno prima, Sorrentino in This must be the place, che in effetti ha notevoli affinità tematiche col nostro. Pawlikowski non si preoccupa affatto della banalità e decide che il viaggio sia, senza esitazione, la scoperta della propria identità per Ida. Afferma a piena voce che i due caratteri siano diversi perché così la dinamica si vivacizza. Infatti, la zia Wanda la avvia, più o meno volontariamente, alle tentazioni che normalmente si offrono a una vita fuori dal convento. E qui s’inserisce sottilmente la più grande riflessione: vale la pena sbagliare, lasciarsi tentare, altrimenti non ha senso neppure il sacrificio che fa una suora. Il sacrificio deve appellarsi alla conoscenza, altrimenti non è sacrificio la castità, ma misticismo. È fondamentale e forma la personalità, sbagliare. Infatti, fuori dalla mia intenzione sciorinare la trama, ma vi assicuro che poco cambia conoscerla o meno, Ida conosce l’alcol, l’amore, la musica pop e i sentimenti.
Il silenzio, che inevitabilmente suggeriscono le immagini perennemente in bianco e nero, come fossero omaggio alla fotografia di Newton o di Bresson, rimane il linguaggio fondamentale di questo film. Per le sequenze di Ida tutto è solo contorno. I personaggi, quasi sempre all’interno della metà o del terzo inferiore dell’inquadratura, non completano questa pellicola. I loro dialoghi scarni non sono esaustivi. Loro sono banali! La vera potenza, il vero significato del film, è affidato alle riflessioni su Dio, sulla spiritualità cui solo allude la trama. Il vero film è nel non detto, nei pochi sprazzi di luce attraverso una vetrata, che possiamo solo immaginare colorata, nelle camminate a testa bassa per strada, nell’interrogativo che rimane dopo aver fatto già tutto. “E poi?”, chiede Ida al ragazzo che vuole coinvolgerla nei suoi progetti di vita.
Tutto non basta, questo c’insegna -senza alcuna pretesa retorica o didattica- Pawlikowski.