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pubblicato 7 anni fa in Altro \ Letteratura

La retorica, l’inutilità e la libertà delle parole

La retorica, l’inutilità e la libertà delle parole

“Perché studi lettere?” Una domanda poco frequente, data la ristretta gamma di risposte convenzionalmente accettate. “Per essere libero” risposta meno frequente della stessa domanda, infinitamente più elaborata ed estratta a sorte, quasi per caso, dal profondo calderone di risposte riscaldato dalla fiamma di una società che percepisce, oramai, soltanto l’utile e non apprezza la delicatissima bellezza dell’inutile.

Ebbene, la Parola rende liberi! Senza troppi giri artificiosi della stessa, senza fronzoli e arzigogoli, ultimo faro di Alessandria, ultimo divampante fuoco reclamato dai mala tempora che spesso (più spesso di quanto sia percepibile) inghiottono, voraci, la nostra stessa voce. La parola ci governa, e con essa governiamo e veniamo governati, la parola si ribella e con essa ci ribelliamo e subiamo ribellioni. Tutto questo, in un tempo che trascende il tempo stesso, ce l’hanno già raccontato i greci, com’é ovvio per tutto ciò che di straordinario abbiamo ricevuto in eredità dal passato. Per retorica, in senso largo, si intende “l’arte del discorso”, un sistema più o meno articolato di forme linguistiche, idee e concetti che servono allo scopo di procurarsi l’effetto desiderato da colui che parla. Una delle proprietà della retorica (in comune con le forme grammaticali, molto spesso sciaguratamente) ci dice che chi utilizza una delle forme di tale sistema non lo fa per forza consapevolmente, proprio come chi utilizza un computer e non necessariamente sappia qualcosa dei meccanismi interni che gli permettono di utilizzarlo. Il susseguirsi delle parole diventa un processo meccanico attraverso cui si determina l’esperienza del discorso. Ebbene la retorica ci permette di conoscere tali meccanismi interni alla stessa lingua, di controllarli ed utilizzarli a nostro vantaggio coscientemente, proprio come la linguistica, che ci permette di cogliere i fenomeni interni alla lingua, che molto spesso applichiamo involontariamente, proprio come i bambini (gli unici ad essere nella verità più totale) imparano a parlare, per via empirica. Ai Greci fu ben presto chiarissimo l’enorme potere della parola; a partire da Omero (padre di molte arti) si svilupparono gli strumenti della persuasione, infatti i discorsi degli eroi omerici, presenti nei due astri più luminosi della letteratura di tutti i tempi, l’Iliade e l’Odissea, manifestano già grande perizia oratoria (tesi sostenuta dallo stesso Platone nel Cratilo). Ciò che ci interessa in questa sede non è però una ricostruzione della storia della retorica, solcata da moltissimi grandi personaggi della letteratura, da Empedocle a Gorgia fino ad arrivare a Quintiliano e Cicerone ; bensì sarebbe opportuno capire l’importanza di un’arma così potente e così apparentemente inoffensiva. Ci è stato inculcato, sin da bambini, la profonda sensazione di prigionia contenuta nella grammatica, e soprattutto nelle sue rigide regole, un retaggio che ci portiamo dietro sin dai primi anni di scuola; ebbene la grammatica, e per estensione la parola (o meglio il suo uso corretto ed efficace) non è una prigione, le regole che la governano non sono nere sbarre di inchiostro su un foglio di carta bianco, al contrario, è l’ascia che ci permette la fuga e di conseguenza la libertà. In una società governata dall’oligarchia, mascherata neanche troppo bene da democrazia, l’anarchia delle parole ci salva. Bisogna conoscerne i meccanismi, le trappole e le trame insidiose per smascherarla, bisogna avere cognizione di causa e agire dall’interno, battere il nemico con la sua stessa arma, trafiggerlo con la sua stessa spada avuta disarmandolo. Ecco dove risiede l’importanza delle discipline che indagano l’arte della parola, discipline mosse da un amore incondizionato, afinalistico e soprattutto meravigliosamente inutile. Inutile come l’inquietudine di una poesia, come l’avvincente trasporto dell’epica, il pathos della tragedia, la reticenza di un frammento, la passione di un romanzo. La filologia, regina della arti che indagano le parole, con la sua implacabile e ossessiva ricerca di ogni dettaglio, è insieme regina dell’inutile, nell’accezione più alta e positiva che questo termine possa assumere. Dopo tutto, come ci ricorda Claudio Magris, la parola studio deriva da studium, che vuol dire amore.

Articolo a cura di Giorgio Grande