Giovanna Nappi
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Le droghe” di Laudomia Bonanni

“Le droghe” di Laudomia Bonanni

«La coerenza della Sua scelta narrativa e del Suo stile, l’amorosa cura del linguaggio, la vigile attenzione agli “affetti mancati e ritrovati”, si allargano oltre la pagina»: con queste parole Valentino Bompiani accoglie Le droghe, romanzo di Laudomia Bonanni uscito per la prima volta nel 1982 e recentemente ripubblicato dall’editore Cliquot che ha già curato la ripubblicazione di Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile.

A raccontare le sorti di quest’opera straordinaria, nella prefazione al testo, è Sandra Petrignani, che nel 1983 conobbe Laudomia Bonanni e apprese del rammarico per la quasi indifferenza che attraversò il suo romanzo. Infatti, pur accolto con favore dall’editore Bompiani, fu «abbandonato a sé stesso», senza ottenere neanche una recensione. A tal punto misconosciuto, escluso anche dal premio Campiello, da spingere la casa editrice a non prendere nemmeno in considerazione il successivo libro della scrittrice, La rappresaglia. Questa sorte, così infausta per colei che aveva vinto il premio Bagutta Opera Prima, è tanto più dolorosa se si considera che, dopo quest’ultimo episodio di mancato riconoscimento – proprio nei riguardi del libro che le era tra tutti il più vicino –, Bonanni abbandonerà definitivamente la scrittura, allontanandosi da ogni ambiente letterario.

Affetti mancati e ritrovati è, però, espressione riduttiva per descrivere questo romanzo. Si trova forse un affetto innanzitutto imposto, insorto come una necessità e subìto per forzatura, radicato nella carne per non essere respinto: è quello della protagonista, la giovane Giulia, nei confronti del figlio dell’uomo che sta per sposare. Bambino problematico, Nino, con vezzi legati alla prima infanzia difficili a morire, schivo nei confronti del prossimo ma con lei, la “matrigna”, conciliante, disposto a compiacerla. Matrigna è un termine che Giulia preferisce non usare, inadatto a descrivere quello strano rapporto di (non) madre e figlio. Quel concetto di maternità, su cui Giulia si interrogherà di frequente nel romanzo, è una spina nel fianco che chiede di essere estratta. È un prurito diffuso, all’inizio, tra due persone che non condividono niente se non una mancanza germinale: entrambi sono cresciuti senza madre, il padre come unico riferimento anche se circondato da figure secondarie e sovrapponibili. E, in mancanza di un esempio da seguire (per Giulia), e di un ricordo da ritrovare (per Nino), l’unica strada possibile è quella di far fiorire un affetto nuovo, estraneo all’una e all’altro fino ad allora. Non a caso il libro, che è diviso in quattro, si apre con due parti tra loro speculari: Infanzia della bambina, con una Giulia piccola e curiosa che ama sottrarsi alle severità paterne per scorrazzare sulla spiaggia e guadagnarsi la sua indipendenza, e Infanzia del bambino, al suo opposto titubante e quasi allergico a ogni nuova scoperta. Nelle due diversità risiede il punto di incontro e di inizio.

Nonostante gli evidenti problemi comportamentali, che spingono il padre da un lato ad affibbiargli epiteti come idiota e dall’altro ad attribuirgli ritardi mentali, Nino è per Giulia semplicemente «il bambino che avevo voluto». In quanto tale, proprio come tutti gli altri, deve crescere, attraversare fasi, vivere le prime esperienze per lasciarsele poi alle spalle, in maniera più o meno traumatica. La storia deve cedere il passo a Le fughe (terza parte del romanzo) e, infine, a Le droghe.

Il titolo non deve essere illusorio: il romanzo di Bonanni, come precisa Cliquot, non è un libro sull’uso di droghe. È un libro su due individui che si sono incontrati per caso e hanno riscritto il significato di ruoli socialmente non accettabili. D’altronde la scrittrice ha già scritto di guerra, di minori, di carceri, di sessualità e depressione; ha insomma già sdoganato, negli anni Ottanta, molti dei tabù che ancora fanno trasalire le persone perbene. Non ha bisogno, con questo romanzo, di essere esemplare e diversa; il suo intento è solo quello di scrivere.

Nelle scelte private della sua protagonista c’è, nudo e crudo, un tentativo di non soccombere alla quotidianità e alle sue regole, di trovare una strada che sia percorribile per sé e per suo figlio: uno sgabuzzino in cui già dopo pochi mesi di matrimonio si rintana per scrivere, dormire, esistere autonomamente. È un inevitabile evolversi, quello di Giulia, mentre si osserva e osserva, a volte spaventata, altre fiera, il suo Nino. La deriva di Nino non è programmata, Giulia non può sospettarla se non nelle forme di una volubilità tipica dei giovani, quei ragazzi «sbandati in vagabondaggio, […] avulsi dal mondo degli adulti, in cui non hanno messo radici». Osservare la distanza che va ergendosi tra sé e proprio figlio e non avere gli strumenti per colmarla, da un lato; la pervicacia e l’insistenza con la quale lotta contro la corrente per accorciare comunque, a ogni costo, quella distanza: i tentativi di Giulia non sono disperati ma genuinamente amorevoli, così pieni di amore da illuderla, da illuderci.

In questo climax giunto ormai al massimo, Le droghe ha il suo contrappeso, un’ulteriore cifra distintiva rispetto a molti altri romanzi che hanno raccontato l’amore filiale. È quella leggerezza di cui la stessa Bonanni parlò in conversazione con Petrignani («ho raggiunto una prosa di una leggerezza e di una trasparenza che mi hanno resa molto soddisfatta», in Le signore della scrittura): le parole si muovono veloci sulla pagina e la lingua non incespica mai sull’una o sull’altra. Le frasi sono quasi sempre brevi, risultato di pensieri e appunti sparsi che si susseguono. E non c’è, d’altro canto, nessuno sbilanciamento tra quanto viene scritto e lo stile perché l’autrice padroneggia allo stesso modo mezzo e contenuto narrato. Il tema della tossicodipendenza non le era infatti sconosciuto: Laudomia Bonanni collaborò come consulente al tribunale dei minori di Roma e fu a contatto con i traumi e le sofferenze di quei bambini e ragazzi; nel 1961 ricevette anche l’Onorificenza al merito della redenzione sociale per la sua attività nell’ambito della rieducazione e riabilitazione dei detenuti.

Si intravede, anche in questo libro come nel Bambino di pietra, quello sguardo ampio e acuto sulle cose e sulle persone, solleticato dagli studi di psicologia. Nei tentativi spesso maldestri o controproducenti di aiutare Nino – ogni madre, in fondo, vuole solo aiutare i propri figli – c’è però sempre una lucidità sottesa, una comprensione profonda delle cose. Anche negli eccessi – Giulia dirà di voler iniziare ad assumere lei stessa le droghe, per diventarne dipendente e costringere così Nino a guarire per occuparsi di lei – è capace di guardare oltre: come si fa a salvare chi non vuole essere salvato? O, meglio: come si fa a salvare qualcuno in un mondo che «disgusta e spaventa»? Se è la realtà in cui si vive a compromettere la vita di chi lo abita, a metterne in discussione il valore, come può una persona, da sola, intervenire e salvare?

E forse l’unica cosa da fare è avanzare, gradualmente, nell’«abbraccio completo dell’acqua» del mare, spingersi fin dove i piedi non toccano più il fondale e nuotare.