Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Recensioni

Legami a corrente alternata: su “Filamenti” di Elisa Biagini

Legami a corrente alternata: su “Filamenti” di Elisa Biagini

Filamento significa legame, propaggine, contrazione; è richiamo visuale alla biologia cellulare – spermatozoi, neuroni, fibrocellule – o subcellulare – miofibrille, dendriti, cromosomi; è anche un termine caro alla tecnologia, con particolare riferimento all’elettrotecnica e ai dispositivi di generazione, accumulo e trasduzione dell’energia. Filamento è una dimensione di connessione, impulso, matrice e derivato, scambio di segnale in forma di scarica e luminescenza.

C’è tutto questo, e l’evocazione di molto altro in Filamenti, ultima produzione lirica di Elisa Biagini (Einaudi, 2020) che prosegue e approfondisce un’indagine già parzialmente esplorata in Da una crepa (2014), e guadagna però un’angolazione più propositiva, meno sfiduciata e afasica nella decodificazione poetica del reale.

Biagini non tradisce la propria vocazione a indagare la mai risolta dialettica tra corporeità e misura cerebrale ed emotiva dell’esistenza, ma sembra voler esplorare il teatro sensoriale cercando una nuova andatura partecipata, che includa nel viaggio alcune figure-guida, presenze che sono radice e suggestione e, in un vortice di ritorno, traguardo dell’azione poetica.

L’autrice si avvicina alla scrittura con intenti programmatici che rivelano un’attitudine quasi sacrificale: per poter incidere la carta sa di dover «mordere terra, mangiare ombra», tornare «dove non si è mai stati», perché fare poesia è ricercare origine e memoria, mentre la provvisorietà ci incalza, e la traccia di ognuno di noi «si cancella nell’andare».

Un «taglio» ci ha resi soli alla nascita, ma rimane un «nodo» che ricorda al nostro piede la mano di chi ci ha preceduti, di chi ci detiene come propaggine di sé, come filamento. Ecco che fa il suo ingresso nella sezione iniziale – Filamenti (maieutica) – la prima anima-guida, una figura generatrice (la nonna) che intaglia e avvia, accende: «In quell’aprirmi al / mondo c’è il tuo / viso e il taglio / che mi ha fatta / sola», parole in cui riecheggiano i versi di Da una crepa, scritti in dialogo con l’amato Paul Celan: «Con gli occhi- / forbici ti ritaglio / il profilo».

Chi conosce Biagini sa della profonda confidenza spirituale con Celan, del continuo gioco di richiami (Fadensonnen, cioè Filamenti di sole era il titolo della sua ultima raccolta pubblicata in vita), della consonanza dichiarata, pervasiva di tematiche e lemmi: anch’egli figura-guida, maestro e compagno dalla poeta ampiamente tradotto, evocato, citato, richiamato alle proprie carte come una presenza numinosa.

Nell’autrice inoltre è rilevante (e pregevole) il fatto che il discorso appaia virtualmente ininterrotto attraverso gli anni, con un’adesione ai temi e una coerenza ai canoni semantici prescelti raramente presenti in altri autori: la percezione della trasmissione di segnale – biologico o emotivo – come impulso elettrico era già presente in Da una crepa dove, ancora in dialogo con Celan, Biagini scriveva: «È tutto diverso, da come tu pensi, da come io penso / eppure sotto la pelle c’è luce / intermittente, s’attiva alla / tua unghia-consonante, al dito / allungato della voce».

Tale fascinazione trova in Filamenti più ampio respiro, nella seconda sezione Moto perpetuo (un’autobiografia), dove l’anima-guida è Nikola Tesla: segnata fin dalla nascita da un esordio elettrificato, convulso, la vita dello scienziato viene descritta come un alternarsi di lampi, rombi e spasimi, subitanee dilacerazioni, in una continua opposizione concettuale tra l’energia come genialità creatrice: «tra i crepacci / del cervello, la corrente / che traccia la mappa nel palmo», e il suo speculare lato avverso di materia bruciante, potenziale voltaico insostenibile, folgorazione letale: «intossicarsi di / scariche, radunarsi / allo sterno».

Anche la narrazione – fortemente evocativa – è contratta e sovraccarica come un elettrodo: il dettato compatto si innalza d’improvviso in visioni lampanti, acuminate: «la luce che ci / asciuga fa questa / carne elettrica», in cui notazioni sensoriali del corpo umano vengono espresse con la terminologia attinta dai campi semantici dell’elettromagnetismo, e la conduzione è il fenomeno fisico che accomuna e sovrappone i due universi: «mielina risvegliata, / calore sulle dita e / pelle come d’aghi».

La concitazione dell’esistenza di Tesla («gli zoccoli dell’ / ora ci rincorrono / scie di bruciato») è scandita in un sistema ternario dichiarato («ogni cosa divisa per / tre») e metaforicamente portato avanti dai versi in terzine, che evocano funzioni sinusoidali di pulsazione, sistemi isofrequenziali simili a quelli dei tre circuiti di corrente alternata del sistema trifase, fino al suo spegnersi, una «fuga dal moto perpetuo» che non poteva avvenire se non nell’incontro luce-buio: «schiariti di / tanta luce, gli / occhi limpidi / adesso pronto / al buio / che sta dietro».

Per quel principio di concatenazione dei temi che attraversa tutta la silloge, la terza e ultima sezione prende proprio il nome di Corrente alternata (dal diario di Mary Shelley); l’autrice vi plasma una Shelley che vuole ridare vita non al gigantesco corpo della creatura – assemblata, orrorifica, incredibilmente tenera – di cui scrisse, ma alla madre morta per setticemia dopo averla generata. Se Shelley e Tesla, nella poiesis di Biagini, condividono la padronanza della scintilla, è però con la potenza della tenerezza che la figlia richiama in vita la madre, estraendola da anfratti viscerali, pulsanti memoria, per ridarle respiro e calore nella parola scritta: «È buio come dentro un cratere mentre sali, ombra dalla trachea, e alla soglia del labbro prendi peso: cadi nel centro del foglio, ti apri».

Biagini qui cambia passo, si affida a una prosa lirica morbida che distende le parole con una grazia fatta di premura lieve, e commozione; la poeta non rinnega l’esergo iniziale, (la citazione di Shelley, che recitava: «L’invenzione […] non consiste nel creare dal nulla ma dal caos») ma anzi incalza: «Hai preso vita dal denso confondersi, nei grigi strati del non-ricordarti. Il buco nero dell’immaginarti».

L’incontro madre-figlia è reso struggente dalla tensione del desiderio, dalla devozione con cui tutto viene cercato, atteso, preparato: «…ho raccolto terra nelle tasche, elettroni sotto le unghie», e ancora: «Il tuo respiro era tenuto in un vaso, in attesa».

Immagini di sapore vagamente vegetale, naturalistico, accrescono la morbidezza del ritrovarsi: «Cresci di dimensione, abbracci le radici alle mie orecchie», fin quando non si ricrea quel contatto, che è «scatto dell’interruttore», che è un riaffacciarsi alla vita nuovamente bianco, luminescente, bio-elettrico: «…sono il tuo assone, sul nostro abbraccio nevica mielina. Cellule in sciami».

La poeta riannoda ora il filamento dell’esistenza, dando un andamento circolare alla sua opera: dalla bambina portata nel mondo dall’anima-guida generatrice, alla figlia che recupera la madre dall’oscurità della morte, in un incontro tra corpi, un «riannodarsi al filamento primo», che è trasmissione, impulso, proseguimento; che è definitiva vittoria della luce: «Dalla soglia sfocata ti avvicini, tu, finora priva di mondo. Le ombre sono inutili, la luce uno spazio senza mura».

di Isabella Bignozzi